Autonomia differenziata e principi costituzionali

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Una ricostruzione di come si è arrivati, nel corso dei passati decenni, al nodo della autonomia differenziata, che costituisce una questione di primaria importanza per l’assetto del Paese. Ora in ballo c’è la bozza di riforma del senatore Calderoli. L’autrice insegna Diritto amministrativo all’Università di Parma

 

 

La recente proposta sull’attuazione dell’autonomia differenziata prevista dall’art. 116 della Costituzione va collocata, a mio parere, per coglierne meglio la portata, nel contesto più ampio dei Principi fondamentali, dell’attuazione delle Regioni nel nostro ordinamento costituzionale e del ruolo da queste giocato dopo la legge costituzionale n. 3 del 2021 che ne ha potenziato la potestà normativa.

Nell’art. 5 della Costituzione è consacrato uno dei Principi fondamentali della nostra Costituzione, come tale immodificabile nel suo nucleo essenziale anche a seguito di revisione costituzionale e che, a sua volta, concorre a qualificare la nostra forma di Stato nel senso di un equilibrio fra unità dell’ordinamento statale e promozione del decentramento autonomistico. Più precisamente l’art. 5 della Cost. si ispira al pensiero giuridico cattolico-democratico che ebbe quale caposaldo Giuseppe Dossetti, espresso in particolare nella Relazione del 1951 («Non abbiate paura dello Stato»). Fulcro di tale pensiero era la fiducia circa la possibilità di costruire un ordinamento statuale che desse al tempo stesso voce e competenze al pluralismo democratico in tutte le sue articolazioni, anzitutto territoriali e sociali. Al contempo,  al centro di tale pluralismo democratico vi era la persona umana, nelle formazioni sociali in cui questa era chiamata a svolgere la propria personalità, e a non disperdere i principi e i legami di unità e di solidarietà delle comunità, ivi comprese quella nazionale.

Fra le differenti autonomie fu indubbio che quelle fondamentali dovevano essere quelle territoriali in quanto, dotate di carattere generale, possono assumere indirizzi differenti da quelli dello Stato o di altre Regioni o Comuni o Città Metropolitane.

Com’è noto, all’esplicitazione di tale Principio fondamentale non seguì un’attuazione tempestiva dato che le Regioni, alla cui introduzione molto concorse il pensiero e l’opera dei cattolici democratici quali Sturzo e Dossetti, furono istituite solo nel 1970 e dotate di funzioni amministrative solo con il D. Lgs. n. 616 del 1977. La necessità di preservare l’unità dell’indirizzo politico a livello nazionale rispetto al pluralismo che inevitabilmente sarebbe disceso dall’effettivo avvio dell’autonomia politica regionale prevalse per qualche decennio sull’esigenza di offrire un tempestivo avvio all’assetto autonomistico contemplato nel Titolo V della Costituzione.

L’equilibrio fra unità e pluralismo autonomistico si spostò in seguito verso il potenziamento delle autonomie regionali e locali nella legge costituzionale  n. 3 del 2001

Anzitutto il nuovo articolo 114 della Costituzione, parificando Stato, Regioni, Comuni e Città metropolitane in seno al nuovo assetto della Repubblica, introduceva una visione innovativa del pluralismo autonomistico, conferendo una pari dignità istituzionale a tutti i soggetti del quadro autonomistico.

La nuova legge costituzionale, pur preservando l’unità dell’ordinamento nazionale, ha accresciuto in modo rilevante la potestà legislativa regionale lasciando alle Regioni le materie cosiddette residuali, ossia non espressamente esplicitate nell’elencazione contenuta nell’art. 117 della Costituzione.

Le ragioni che condussero alla Riforma costituzionale furono quelle volte alla preservazione dell’unità dell’ordinamento di fronte alle tensioni di devoluzione verso entità statuali distinte sollecitate da alcune formazioni politiche.

Sono tuttavia ben evidenti i limiti che la Riforma costituzionale  ha mostrato  alla prova della realtà, nella sua attuazione attraverso le concrete dinamiche costituzionali.

Le materie affidate alla potestà concorrente regionale, all’interno dell’art. 117 della Costituzione, accesero infatti per molti anni controversie fra Stato e Regioni affidate, nella loro risoluzione, alle pronunce della Corte costituzionale in una delicata actio finium regundorum

Soprattutto in alcuni settori, come quello dell’energia, le tensioni fra la necessità di realizzare strategie nazionali e di assolvere ad obblighi verso l’Unione europea, come quelli correlati alla promozione delle fonti rinnovabili, e, al tempo stesso, quelle di attuare politiche più rispondenti ai bisogni dei territori hanno reso il terreno della potestà concorrente teatro di conflitti incessanti fra Stato e Regioni. Alcune Regioni non si sono dimostrate all’altezza della sfida loro affidata attraverso il riconoscimento di così rilevanti spazi di autonomia, costituzionalmente garantita, e la Corte costituzionale, spesso chiamata a dirimere le controversie in via di azione mosse dallo Stato o dalle Regioni, ha preferito difendere le prerogative legislative del primo.

L’astro dell’istituzione delle Regioni, che nel 1948 fu presentato dal Presidente dell’Assemblea Costituente, l’onorevole Meuccio Ruini, quale una delle innovazioni più qualificanti della Costituzione del 1948, non si mostrò dunque in grado di soddisfare le attese elevate risposte nella loro attivazione.

All’innescarsi di tali conflitti avrebbe potuto offrire una soluzione istituzionale soddisfacente la legge costituzionale sottoposta al referendum svoltosi il 5 dicembre 2016, con la quale, fra le altre innovazioni, alcune materie, come quella della produzione e della distribuzione dell’energia, venivano ricondotte alla potestà esclusiva dello Stato.

L’eterogeneità delle riforme insite nella nuova disciplina costituzionale non ha favorito l’esito positivo del referendum costituzionale, unitamente ad una personalizzazione del suo possibile successo da parte del premier Renzi, e il suo fallimento ha decretato anche quello di profili riformatori senza dubbio condivisibili come quelli del ritorno allo Stato della competenza in materia di energia.  Infine non fu realizzata la Riforma che avrebbe trasformato il Senato in Camera delle Regioni con una differenziazione del bicameralismo, a cui sarebbe conseguito l’ingresso delle autonomie regionali in un organo nazionale che ne avrebbe rafforzato prerogative e responsabilità, sul modello tedesco.

Un’ulteriore palestra dell’equilibrio e delle tensioni fra unitarietà dell’ordinamento costituzionale e autonomie si palesò nella gestione emergenziale della crisi pandemica nel 2020. In tale contesto infatti l’urgenza e la necessità di introdurre misure di precauzione del rischio pandemico a livello nazionale, affidate inizialmente allo strumento del DPCM (Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri) e poi a quello del decreto-legge, dovettero convivere con le successive ordinanze regionali che declinavano le misure improntate al principio di precauzione sui rispettivi territori.

Di recente le dinamiche di relazioni fra Stato e autonomie hanno trovato un nuovo terreno di scontro sulla questione dell’attuazione dell’autonomia differenziata contemplata dall’articolo 116 della Costituzione, così come indicata nella bozza di Riforma presentata dal Ministro Calderoli lo scorso mese di novembre. Si tratta tuttavia di un fronte assai delicato poiché, se non collocato nel contesto sopra descritto del rispetto dei Principi fondamentali, rischia di spezzare l’unità dell’ordinamento e di acuire le discriminazioni territoriali già esistenti fra Nord e Sud del Paese.

L’unità dell’ordinamento, contemplata dall’art. 5 della Costituzione, va garantita anzitutto sul piano dei diritti sociali e della legittimazione esclusiva dello Stato nazionale come interlocutore nelle relazioni internazionali, come ha rilevato di recente il prof. Sabino Cassese (su La Stampa, 21 novembre 2022: «L’autonomia voluta dalla Lega ferisce l’unità del Paese»).

Inoltre sarà fondamentale assicurare l’equità nella fruizione delle risorse finanziarie, evitando che alcune regioni trattengano le risorse discendenti dall’imposizione fiscali sui propri cittadini, e la previa definizione dei LEP ossia i livelli essenziali delle prestazioni, previsti dall’art. 117 della Costituzione e finora mai adeguatamente precisati.

In realtà i modi dell’attuazione dell’autonomia differenziata sono una questione di portata politica  nazionale assai rilevante, non limitata allo scontro fra Nord e Sud del Paese e su cui si dovrebbe attivare un dibattito pubblico molto più intenso di quanto non sia avvenuto fino ad ora e rispetto al quale stupisce molto il silenzio di gran parte della classe politica del Nord del Paese («Autonomia differenziata: il silenzio del Nord», in Rivista il Mulino, novembre 2022).

 

Monica Cocconi

(professoressa di Diritto amministrativo all’Università di Parma)

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