In memoria dei miei due più cari amici, Albertino e Antonio

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Questo scritto non è un articolo, ma una memoria che l’autore ha steso in ricordo di due suoi grandi amici. E’ una memoria non solo personale, perché si tratta di due persone significative, in diverso modo, di una storia che ci riguarda un po’ tutti. Ricordare la loro vita apre anche una riflessione sulla fede. (Nella foto Antonio Santi)

 

 

A breve distanza di tempo, quest’anno sono morti i miei due amici più cari, Albertino Gervasoni e Antonio Santi.

Mi sono stati strappati via e la loro mancanza è per me una sofferenza viva.

Se fossimo in altri tempi e ne avessi le capacità, scriverei un’apologia, un elogio, tanto è il debito che sento nei loro confronti.

In modo diverso tra loro, essi sono stati tanta parte della mia vita, da quando li ho conosciuti negli anni ’60 nel movimento dei Giovani Lavoratori (GL) fino a questo anno triste.

Il primo che ho conosciuto è stato l’Albertino (uso l’articolo davanti al nome, perché era un personaggio e spesso lo chiamavano così: l’Albertino, il Gervasoni) e ricordo bene anche l’occasione.

Si trattava di un incontro preparatorio alla nascita di GL per raccogliere le forze, all’Eremo di S. Salvatore presso Erba: eravamo una ventina di persone ed era presente, non so come, anche il Gervasoni con un amico, il Piercarlo Pedrazzini, in rappresentanza di un gruppo di San Siro.

Era un gruppo di ragazzi e ragazze che, a seguito di un diverbio col parroco, si riuniva fuori dalla parrocchia, dove era possibile; cercavano un aiuto soprattutto su che cosa fare.

Sentendo parlare di periferia (la periferia per tanti di noi ha sempre costituito un mito, come il Far West per gli americani) mi sono subito offerto e la settimana dopo ero già a San Siro a fianco dell’Albertino.

Abbiamo fatto insieme il raggio Harar (così si chiamava il gruppo) e poi altri due raggi, al Lorenteggio e alla Fondazione Crespi Morbio in viale Monza.

Dopo qualche mese, l’Albertino mi ha invitato a cena a casa sua: c’era il padre a capotavola, io alla sua sinistra, l’Albertino alla destra e poi una sorella vicino a me, l’altra sorella e la mamma dall’altra parte.

Ad un certo momento il padre parla del lavoro del figlio “El mè fiò el vol minga fà el mestè del sò pà” (Mio figlio non vuol fare il mestiere di suo padre).

Era così commosso mentre parlava, che si è messo piangere, l’ha seguito l’Albertino e subito dopo le sorelle e la mamma; sono rimasto lì, che non sapevo cosa fare.

L’Albertino poi mi ha raccontato della sua vita da ragazzo, quando accompagnava il padre nelle campagne per il suo lavoro, dormendo nei fienili, mangiando nelle tavolate in cascina: vita libera e di una socialità naturale.

Ha sicuramente preso molto da quella esperienza, fra l’altro l’uso del dialetto (un dialetto più antico e più autentico di quello cittadino), che l’Albertino usava molto.

Il dialetto non è solo una lingua, è una cultura, è un modo di avere un rapporto con gli altri più diretto, più familiare (puoi parlare l’italiano con un americano, non puoi parlargli in dialetto, è una lingua riservata ai conterranei, ai consimili).

E poi il dialetto è colorito, carica le persone e gli avvenimenti dando loro un carattere più marcato, ed è anche un po’ canzonatorio in senso bonario, quasi per sollevarci un po’ dal peso della condizione umana.

L’Albertino poi spesso non parlava, gli era più spontaneo raccontare, trasformava tutto in racconto (un’assemblea, una trattativa, l’incontro con un industriale), perché nel racconto i personaggi diventano vivi e gli episodi assumono un carattere quasi leggendario.

Ricordo alcuni di questi racconti memorabili e mi rammarico di non averli trascritti, perché avrebbero meritato di essere raccolti e pubblicati.

Se doveva fare una domanda a qualcuno (l’indicazione di una strada, dove si poteva mangiare bene) non faceva mai la domanda diretta, a freddo, ma intavolava un discorso: solo quando si era sviluppato un acceso dibattito, come fra gente che si conosceva da tempo, allora giungeva il momento di fare la domanda, sicuri di avere la risposta migliore.

Il suo carattere popolare si manifestava in tanti episodi: quando si passeggiava con lui per le vie di una città, era l’unico che si fermava davanti alle vetrine delle macellerie, da intenditore. Una volta dalle parti di via Sarpi si è fermato un po’ davanti ad un negozio di macelleria e il macellaio incuriosito gli ha chiesto cosa stesse guardando. “Gavì no la testina!” (Non avete la testina). “Gavemm no la testina?! Venga denter”. E Gervasoni è uscito dalla macelleria con una testa intera di bovino da portare a casa.

E’ diventato segretario del sindacato dei poligrafici per merito personale, perché era un elemento di unione, sapeva portare concordia, amicizia, accordo, per le sue doti naturali.

Ricordo che se si andava al cinema al suo quartiere, al suo ingresso si levavano tante voci a chiamarlo: era conosciutissimo e amico di tutti.

Il suo sindacato era una compagnia, una “banda” (in senso buono), un gruppo di amici, e l’Albertino si preoccupava tanto del morale dei singoli che di quello del gruppo, un gruppo i cui legami sono vivi ancor oggi.

E’ diventato anche segretario nazionale della sua categoria, ma ha resistito poco: a Roma si incontrano solo dirigenti e l’Albertino emergeva, era veramente lui, solo in un ambiente popolare, in mezzo ai suoi.

In un ambiente popolare, ad esempio in un’assemblea, avvertiva subito l’aria che tirava, l’umore della gente.

Lo chiamavo per questo “psicologo popolare” e non ho mai conosciuto nessuno che avesse la stessa capacità; per me era come un consulente di fiducia e quando dovevo fare un discorso o scrivere un documento sentivo prima il suo parere: la sua approvazione valeva una garanzia.

Negli ultimi anni, proprio per questo suo carattere popolare, ha conosciuto qualche difficoltà: era sparita la classe operaia, era sparito il popolo, il suo ambiente.

Fin quando c’è stato un popolo, Gervasoni era come un pesce nell’acqua, si trovava nel suo elemento naturale.

Io che provengo, diciamo, dal ceto medio posso sentire l’esigenza di “andare al popolo”; l’Albertino no, era il popolo, era un uomo del popolo, un uomo giusto.

Con lui, in sessanta anni di amicizia, abbiamo fatto di tutto: iniziative sociali, sindacali, politiche e poi gite in montagna, corse in biciletta e nei parchi cittadini.

Avevamo anche una bella tradizione: una volta all’anno con due o tre amici fidati (Renato, Cesare, Corrado) andavamo a mangiare in qualche buona trattoria in campagna per discutere i grandi problemi politici nazionali e internazionali, una specie di G7 alla buona, ricco di idee e ancora di più di amicizia.

L’ultimo nel maggio 2020 era già fissato, quando è scoppiata la pandemia: era previsto per mercoledì e domenica è scattato l’allarme e così ci siamo sentiti al telefono (ci sentivamo tutte le settimane!) per decidere di rinviare.

Nella stessa settimana Albertino ha avuto un ictus e quindi è stato l’ultima volta che l’ho sentito e mi rammarico ancora adesso di quell’occasione perduta.

E’ stato ricoverato in ospedale dove è rimasto per nove mesi (in tempi di pandemia non si trovava un centro di riabilitazione che lo accogliesse), nei primi tempi senza poter vedere nessuno; mandato a casa era immobilizzato a letto, non autosufficiente nel mangiare, in grado di dire poche parole.

Sono andato a trovarlo cinque o sei volte, mi diceva “ciao” e poi si assopiva.

E’ stato un anno e mezzo di sofferenza per lui e per la sua famiglia, la moglie Paola e i quattro figli che gli sono stati sempre vicini, fino al luglio di quest’anno.

Purtroppo, al momento della sua scomparsa ero lontano da Milano, in viaggio per la Sicilia, dove si sposava mia figlia: ho telefonato alla moglie che mi ha raccontato degli ultimi giorni e della sua morte “Era vestito bene. Era bello.”

Sì, l’Albertino era bello, una bella persona, un bell’amico, un bel compagno di tante battaglie.

Ha sofferto nell’ultimo periodo, ma anche Cristo ha sofferto prima di morire e risorgere, la sua sofferenza gli apre una strada luminosa verso la gloria del Signore cui è destinato.

Pensavamo di passare insieme qualche anno della nostra vecchiaia, in serena compagnia; non è stato possibile, ma chiederò al Signore di metterci vicini nella vita eterna in modo da poter continuare la nostra amicizia per sempre.

Quando ci incontravamo o ci sentivamo, eravamo felici; ho voluto molto bene all’Albertino e altrettanto lui ne ha voluto a me: niente ci ha mai potuto separare se non, provvisoriamente, la morte. Ma sono certo che ci rivedremo.

Due parole voglio aggiungere sulla fede dell’Albertino; la sua fede era quella popolare, quella che era stata dei suoi, la fede della tradizione, la fede di tutti: si nasce in un ambiente dove c’è la fede e la si condivide in modo naturale, quasi come qualcosa di innato.

Per questo è una fede solida, che non si fa tante domande (mentre oggi tanti fanno della religione un problema di conoscenza, alimentando soprattutto dubbi; e la fede popolare è in crisi perché è in crisi il popolo), che non ha in mente riforme e cambiamenti della chiesa: chiede che i preti si comportino evangelicamente e che la chiesa operi per la giustizia.

La fede popolare esprime un sentimento profondo di ”pietas” nei confronti di un mondo che conosce tante miserie e sofferenze e che merita comprensione e compassione.

E proprio perché popolare pensa che ci si salverà tutti assieme e che un giorno, in un’altra vita, ci ritroveremo in un’unica grande assemblea; e in quella assemblea l’Albertino riprenderà la parola e non mancherà di farci uno dei suoi discorsi in dialetto.

 

Ben diverso era l’altro grande amico, l’Antonio.

Ho incontrato l’Antonio in GL nei primi anni ’60, ma ci siamo veramente conosciuti nel 1965: era diventato presidente di GL e l’ho affiancato.

Durante due o tre anni abbiamo affrontato e condiviso le nostre idee sulla chiesa e sulla società che poi, nel corso del tempo, abbiamo aggiornato e migliorato, sempre in modo parallelo e congiunto.

Devo ricordare che GL era un movimento che a metà degli anni ’60 raccoglieva le adesioni di un migliaio di giovani lavoratori (di cui un terzo operai), ma non aveva un riconoscimento ufficiale della Diocesi e pertanto non aveva un proprio assistente spirituale.

Così dovevamo arrangiarci anche sul piano religioso per quanto riguarda l’indirizzo del movimento; ciò ci ha fatti diventare responsabili anzi tempo, particolarmente Antonio.

Venuto il momento di fare le scelte adulte, Antonio decise di entrare nella MOPP, la Missione Operaia Santi Pietro e Paolo, promossa da Padre Loew, che avevamo incontrato a Milano (padre Jacques Loew, domenicano, fu il primo prete operaio francese, all’inizio degli anni quaranta, ndr).

Prima di assumere questa decisione aveva parlato col card. Colombo, Arcivescovo di Milano, illustrandogli come intendeva la vita del prete; la risposta del cardinale fu che si trattava di un’idea bellissima, ma da realizzare a Pittsburgh, perché a Milano la Diocesi aveva una concezione diversa.

I caratteri della missione di padre Loew erano sostanzialmente due: una scelta per il mondo operaio (ma come una realtà umana di gente comune, ben lontana da una visione classista della classe operaia, dunque distanziandosi dalle posizioni di molti preti operai) e un’idea di Chiesa che doveva rinnovarsi dal basso (da qui la scelta operaia).

Erano due idee che erano anche nostre e che si possono ritenere tuttora valide, anche se il progetto di padre Loew non ha avuto successo: la scomparsa della “classe operaia” ha allontanato l’interesse per quel mondo e la chiesa ha i suoi tempi per i cambiamenti ed è difficile parlare di un modello particolare in proposito.

Tutto questo non ha turbato Antonio perché già allora privilegiava la fede rispetto alla discussione sulle diverse esperienze ecclesiali e poi perché aveva una propria idea, una propria vocazione personale del tutto diversa: dedicarsi alla Russia.

Questa vocazione era nata da un fatto contingente: abitava a Milano a pochi passi dalla sede di “Russia cristiana” dei padri Scalfi e Modesto, che frequentava e da cui ha tratto l’ispirazione.

Qualche anno dopo ebbe l’occasione di poter andare in Russia come tecnico dell’Eni, ma ne fu espulso dopo breve tempo, a suo dire per una ritorsione commerciale.

Conobbe allora alcuni anni di vera crisi: la sua vocazione era quella e non poteva inventarne un’altra.

Sono stati anni molto difficili perché non voleva assumere una decisine che non sentiva sua e non sapeva cosa fare, anche perché i responsabili di allora della MOPP non capivano e non furono di grande aiuto; per aiutarlo a risolvere il problema pensarono di mandarlo da uno psicanalista!

Ricordo che ne parlammo ridendoci sopra.

Qualche anno dopo, per fortuna, le porte della Russia si riaprirono e subito Antonio si precipitò a cogliere l’occasione rientrando in Russia per non lasciarla più.

Strana missione la sua: non aveva certo l’intenzione di dedicarsi alla conversione della Russia!

Diciamo che tutto il suo scopo era essere un cristiano in Russia, amare la Russia da cristiano.

Non aveva progetti o scopi concreti; per qualche tempo si è occupato della Caritas, ma se ne è liberato appena gli è stato possibile, perché rifuggiva da impegni organizzativi.

Faceva lavoretti per campare (traduzioni, insegnamento dell’italiano, accompagnamento di italiani a Mosca) e le sue attività apostoliche erano minime, personali, occasionali, nessuna forma organizzata, nessuna attività strutturata.

Aveva rinunciato a diventare sacerdote (quasi tutti i confratelli della MOPP lo erano; lui invece era diacono) in parte perché questo avrebbe reso più difficile l’ingresso in Russia, per i vincoli strettissimi in materia, ma probabilmente molto di più per non presentarsi con un ruolo che gli avrebbe dato autorità e compiti già definiti.

Voleva essere come gli altri, non apparire, vivere nella discrezione, interessarsi delle persone e delle cose che il Signore gli offriva giorno per giorno: relazioni, piccole iniziative, qualche stimolo culturale, qualche momento interreligioso.

Ha scritto che da giovane cercava Dio e questo ha continuato a fare per tutta la vita: vivere di fede.

Una fede vissuta in un modo che potremmo definire nuovo.

Gli apostoli di una volta creavano congregazioni (ne abbiamo un’infinità di cui non si ricorda più neppure il motivo della nascita) e più recentemente movimenti; con lui siamo in un’altra sfera, in un altro universo.

In un mondo globalizzato, sempre più individualizzato, la fede si presenta disarmata, debole, priva di ornamenti e di difese, presenza pura in mezzo a uomini in diaspora.

Una fede lieve, come un soffio, quel tanto sufficiente per avvertirne l’esistenza.

Non ti propone qualcosa, ti è vicina, ti accompagna.

Chiedendogli un aiuto spirituale per Comunità e Lavoro (associazione fondata a Milano da Sandro Antoniazzi, ndr) mi ha risposto che poteva accompagnarci, ma non riguardava solo noi, era ormai un suo metodo di vita.

Non parlava di religione, di principi, la sua attenzione si rivolgeva alle persone, ai loro problemi, anche piccoli.

Non che i principi non siano importanti, ma calarli dall’alto non serve; l’idea originaria di partire dal basso si trasformava così nel partire dall’esperienza delle persone, dalla loro concreta umanità, vissuta come un’apertura al mistero della vita.

Doveva aver preso un po’ dello spirito russo: in un mondo senza confini, praticamente illimitato, non fai progetti, ma sei disponibile agli incontri che ti possono accadere, a ciò che ti può succedere, in un punto qualunque di questa realtà infinita.

Se si aggiunge il fatto che per molti anni è stato responsabile della MOPP e dunque ha potuto girare molti paesi, Antonio aveva una vasta conoscenza del mondo, per esperienza diretta e attraverso le molte persone con cui era in rapporto.

Anche per questo era un cittadino del mondo: se Bauman parla della solitudine del cittadino globale, per Antonio si potrebbe parlare della fede del cittadino globale.

Don Giussani a suo tempo ha avuto il grande merito di comprendere che era inutile proporre la fede se non esiste la domanda; occorreva per questo partire dall’incontro, dall’esperienza, dall’evento, momenti decisivi per aprirsi alla fede.

Se il mondo è costituito da una miriade di individui isolati, fra questi individui ve ne sono alcuni che credono e che possono offrire, anche non volendo, per il solo fatto di esserci, l’occasione di un incontro.

Così Antonio viveva di fede e lasciava al Signore la scelta di come meglio servirsi della sua fede.

Si potrebbe anche fare un paragone, fatte le debite proporzioni, coi compiti degli angeli custodi: “custodire” appunto, prendersi cura, anche di aspetti materiali, ma sempre in modo spirituale.

Se amate i bambini e quando li incontrate sorridete loro, a volte vi rispondono “ciao” con la manina: un tenue sorriso da una parte  e una piccola manina che risponde timidamente dall’altra. Ecco, questa mi sembra l’immagine più rispondente a che cosa era la fede di Antonio.

Ci siamo visti l’ultima volta a fine settembre 2020, all’aperto, data la pandemia, prima che ripartisse per la Russia.

Doveva andare all’ospedale per un problema all’intestino, ma ci è arrivato con una polmonite già avanzata e date le sue condizioni generali di salute non ha retto; è morto all’inizio del febbraio successivo.

Quando ci siamo visti al Parco Ravizza, abbiamo passeggiato un po’ e poi ci siamo seduti su una panchina a chiacchierare.

Abbiamo parlato molto della chiesa: l’opinione comune è che i cambiamenti sono necessari, ma avverranno in tempi lunghi, soprattutto in Italia; l’impazienza di molti “riformatori” a riguardo non ci sembrava condivisibile.

L’adeguamento delle strutture è utile, ma non bisogna dimenticare che ciò che conta più di tutto è la fede e con fede occorre affrontare anche i travagli e i tempi della chiesa.

Non c’è “una” soluzione alle difficoltà della fede oggi, si può solo guardare con attenzione e con simpatia ogni sforzo piccolo o grande che cerca di costruire a partire dalla fede.

Queste sono state le nostre ultime riflessioni comuni.

Se ripenso alle nostre idee iniziali degli anni ’60 quando fervevano progetti, movimenti, iniziative e grandi visioni del mondo, non si può non prendere atto della loro quasi totale scomparsa.

Però quello che è rimasto è la cosa più importante: la fede, la stessa di una volta, provata e riprovata, passata attraverso tante vicende e traversie, ma sempre viva, una fiammella che resiste.

E questo ce lo dicevamo con un sorriso.

Il sorriso era spesso sulle labbra di Antonio, lo stesso che si vede nella foto sulla sua tomba: un sorriso di benevolo distacco, come per dire che le cose di questo mondo passano.

E’ il sorriso con cui ci ha lasciati.

Antonio ha amato appassionatamente Dio per tutta la vita e ora è andato a incontrarlo di persona.

 

Sandro Antoniazzi

agosto 2021

One Comment

  1. Grazie Sandro per questo bellissimo profilo dei tuoi amici Albertino e Antonio. Per me che sono un po’ più giovane, ma che comunque comincio a pensare agli anni “che verranno” (se verranno…) è un gran bell’insegnamento su come si possono vivere gli anni di fede in età avanzata… Con semplicità, ma con la stessa intensità. O, forse, visti questi anni difficili, con più forza di prima. Un abbraccio con affetto

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