Il leader, la leadership, e la necessità del dialogo

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di Nino Labate

Facciamoci caso. Di leader autoproclamati e solitari fondatori di partiti e partitini sparsi, oppure che tengono chiuso a chiave il nome di partiti storici, oggi se ne contano a bizzeffe. Le domande che ci poniamo sono: ma è questo il vero pluralismo? È questo il vero rispetto delle idee, dei corpi intermedi, delle realtà comunali?

Rimango convinto che si tratti solo di narcisismo politico e di quella diffusa malattia individualista che tempo fa ho definito “leaderpatia”, la malattia dell’ego. Quella della voglia di comando e di essere capi, che si nota anche fra i sindaci. Quella che evita le verifiche, il confronto e il mettersi insieme con modestia, anche con i diversi, per il raggiungimento del bene di tutti.

 

Aggregati? Chi, come e per cosa?

Sono stati 101 i contrassegni presentati al Viminale per le ultime elezioni politiche. La stragrande maggioranza non è poi comparsa sulle schede elettorali. Ora, comprendendo anche i partiti regionali, in Italia sono presenti circa 110 partiti diversi. Tutti in mano ad altrettanti autoproclamati e singoli leader. Moltissimi senza alcun seguito se non quello familiare. Di questi 110 partiti: 22 tra maggiori e minori sono rappresentati in Parlamento; 11 sono partiti regionali e locali; 9 partiti con rappresentanza nei Consigli regionali; e 67 presenti alle elezioni regionali, ma senza rappresentanza.

Insomma, una baraonda confusa di partiti e di leader, che fa toccare con mano i tempi dell’individualismo, delle gelosie, e dell’insana voglia di camminare da soli che viviamo. Scomparso il dialogo, scomparso il gruppo e la squadra, e scomparso il noi, rimane l’io. E rimane anche nelle associazioni partitiche, che in quanto tali, dovrebbero per prima cosa associare, aggregare e unire persone. Rimane il singolo solitario, come fa capire bene la filosofa Francesca Rigotti nel suo bel libro “L’era del singolo” (Einaudi, 2021), perché «…essere individui non basta più».

Allora, mentre i leader virtuali prolificano e si diffondono elezione dopo elezione, ingolfando e perfino confondendo l’elettorato con i loro partiti personali, risulta invece totalmente assente la leadership. Quella di una guida sapiente e autorevole, colta e lungimirante, che indichi un cammino comunitario. Quella che sia anche di un buon  insegnamento etico.

Sedicenti leader, invece, a bizzeffe! Tutti presenti a destra come a sinistra e nei diversi centri vecchi e nuovi, in quantità indescrivibili. Ognuno però per proprio conto.

 

Il sistema tenta di adeguarsi…

Si colloca molto bene, allora, in questo panorama, un tema che mi trova molto sensibile. Si afferma ripetutamente che una legge elettorale proporzionale rappresenti il viatico indispensabile e unico per la nascita – o ri-nascita – di alcuni partiti di centro.

In particolare, partiti di un nuovo centro cattolico-moderato. Una nuova legge che dovrebbe ridurre quell’alto tasso di assenteismo in progressiva crescita da venti anni a questa parte, per il semplice motivo che chi non va a votare, sarebbe proprio un ceto cattolico e un ceto medio moderato. Forse quella borghesia scomparsa del tutto. Può darsi. E io lo auguro ai cari amici che ci scommettono, anche se questo cattolicesimo  moderato si riduce al solo linguaggio sereno e alle posture meno aggressive e nervose, non essendo mai stati gli autentici valori del cristianesimo, valori moderati.

Devo tuttavia aggiungere, che su questo tema, e osservando il sopraggiunto  rimescolamento del voto di classi e ceti, sono da tempo molto scettico e incredulo.  Ricordo per esempio, che il voto maggiore della classe operaia è oggi distribuito in larga parte sui partiti di destra, Lega e FdI. E che con una secolarizzazione galoppante e mettendo nel conto anche il Covid, di fronte a un forte calo della presenza domenicale in chiesa, e di partecipazione  alla messa religiosa – dal 36 % del 2001, al 19% del 2023 (Istat) – quella fetta di elettorato che dichiara di andare a messa, ha distribuito il suo voto politico come segue: il 25% ha votato Pd; il 15% Lega ; il 10% FI; il 25% M5s; il 25 FdI (Ipsos: Pagnoncelli). Come si vede il 50% di questo c.d. voto cattolico si colloca sulla c.d. destra. Un cattolico variabile e liquido dunque. Tenendo conto, per esempio, che in precedenza, ai tempi del Rosario e del Vangelo in mano a Salvini, ha visto la Lega da sola, con  ben il 34% di questo voto poi calato,  come si nota, bruscamente.

Pluralismo del voto cattolico, dunque, che mi rimanda a un mio vecchio chiodo fisso. E cioè che forse queste scelte partitiche così disperse e distribuite, sono giustificate dal fatto di non aver mai visto, in questi anni e dopo la fine della Margherita, la più piccola volontà da parte del frammentato, isolato, sparso e geloso associazionismo politico e culturale cattolico, di mettersi tutti insieme e di ricomporsi almeno con degli incontri periodici e dei Forum annuali, come, inascoltato, circa 20 anni fa ha suggerito in un convegno di Agire Politicamente lo storico Giorgio Campanini.

Proposta probabilmente, e dati i tempi di crisi della politica e della sua volatilità, non risolutivi. Ma almeno si doveva e poteva provare, ricordando che dentro la Dc c’era la sua sinistra interna di base cattolico-democratica, una corrente minoritaria che, come ripeteva Zaccagnini, amava però la cultura e lo studio, il pensare e l’agire politicamente, e che era cosa molto diversa da tutta la restante Dc. Una corrente molto più propensa al cammino e al dialogo con i diversi, alla solidarietà nazionale, e perfino alle mediazioni e ai ‘compromessi’ con i ‘nemici storici’, come poi dimostrò Aldo Moro.

 

E i dubbi su cosa offre il “mercato” restano

A proposito dell’assenteismo vorrei quindi usare un banale esempio per entrare nel merito di questo preoccupante andazzo. Rimango, infatti, della convinzione che se non si va più al mercato rionale sotto casa, non si va perché non si trova l’offerta della frutta che ci piace, che si preferisce, o che si è sempre mangiata nel passato; oppure non si va, perché non ci piace più andare al mercato: per la sua confusione, per i suoi impicci e imbrogli, per la qualità dei venditori, e per la frutta inquinata che si vuole vendere ingannando il compratore. Giusto o non giusto che sia, dal momento che la stragrande quantità dei venditori è anche onesta, la crisi dei partiti ormai liquidi e della democrazia rappresentativa ormai liquida, sta tutta in questo mercato liquido e volatile, se non gassoso, che sono diventate le periodiche elezioni.

Ed è crisi della stessa democrazia politica che di fronte alle logiche dell’economia di mercato, e al potere finanziario incontrollato, spinge alla post-democrazia; è crisi del voto politico ormai fluido e cangiante tra partiti addirittura opposti; è crisi del ceto politico che emigra da un partito all’altro con una facilità impressionante. È crisi insomma della qualità della classe dirigente che sollecita sfiducia, e spinge verso il leader isolato in diretto contatto con l’elettore, grazie ai media vecchi e nuovi, come ha sostenuto oltre venti anni fa Bernard Manin con la sua Democrazia del pubblico. Fenomeno, che pur non essendo solo italiano, diventa pericoloso per la democrazia partecipata e per quella eventualmente deliberativa.

Aggiungo una postilla per me importante. Perché se non si va più al mercato degli appuntamenti elettorali, non si va anche perché si trovano solo e soltanto due ‘qualità’ di frutta: il bipolarismo politico e partitico, anche quello maggioritario, non ha mai incentivato l’assenteismo. Anzi, ha sempre fatto diminuire la confusione della scelta tra una marea di partiti, diversi solo per il leader, e che vogliono rimanere diversi anche di fronte alle sfide che ci attendono. Le cause dell’assenteismo, dicono gli studiosi, bisogna individuarle solo nella perdita di fiducia nei partiti, nella classe politica, e nella modalità di gestione della ‘res pubblica’. Fattori, questi, che il lungimirante Pietro Scoppola aveva intuito sin dal 1991 nel suo La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-1996), (Il Mulino).

Il noto sociologo e filosofo Zygmunt Bauman, in una delle sue ultime interviste ad Avvenire ha sostenuto che «…Il vero dialogo non è parlare con gente che la pensa come te». Ma è quello che «insegna ad imparare (…) l’opposto delle conversazioni ordinarie che dividono le persone: quelle nel giusto e quelle nell’errore (…) entrare in dialogo significa superare la soglia dello specchio, insegnare a imparare ad arricchirsi della diversità dell’altro».

La pensava così anche Aldo Moro!

 

Nino Labate. (II. Fine)

2 Comments

  1. nino è troppo lungo.

  2. Caro Nino, che cosa dire, di fronte al tuo discorso ( nel senso letterale del “dis-correre” ) quasi precipitoso? Non potrei non condividere, con lo stesso tuo disappunto che lo pervade. Da parte mia, sposterei l’attenzione sulle responsabilità, di commissione e di omissione, del cosiddetto “mondo cattolico”, sia in ambito ecclesiale, sia in ambito politico. Nei due ambiti ci sono anche nomi e cognomi che dovrebbero “rispondere”, secondo l’etimologia stessa della parola “responsabilità”. E non per farne un processo giudiziario ( che pur si configurerebbe almeno in alcuni casi) ma per spiegare e capire come e perché si è “proceduto”. È una lettura, con le lenti di Francesco, che in genere non manca negli incontri assembleari e seminariali della mia associazione. Intanto, grazie molte a te, perché solleciti, incalzi, provochi…con un affettuoso saluto

    Lino

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