Un delirio di odio e di violenza

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di Salvatore Vento

Riprendere le risoluzioni ONU: da una parte garantire la sicurezza d’Israele, dall’altra costituire lo Stato di Palestina, Un delirio di odio e di violenza (Conquiste del Lavoro)

L’attacco criminale di Hamas di sabato 7 ottobre, giorno di Shabbat, e la successiva violenta reazione di Israele nella striscia di Gaza, continua a suscitare emozioni contrastanti in tutto il mondo e interroga le nostre coscienze.

La prima domanda a cui rispondere è come mai questo conflitto si protrae da oltre settant’anni e come mai i terroristi hanno avuto la possibilità di sorprendere la potente difesa israeliana.  Per cercare di ragionare è necessario non dimenticare mai la storia.

Nascita dello Stato d’Israele

Lo Stato d’Israele nasce ufficialmente il 14 maggio 1948, ma a differenza della formazione di tutti gli stati nazionali, non deriva dalla lotta di un popolo residente in un territorio occupato dagli invasori (l’Italia contro austriaci, gli Stati Uniti contro gli inglesi, i popoli latinoamericani contro gli spagnoli) o dai colonizzatori (francesi, tedeschi, italiani, inglesi, olandesi).

Israele nasce dalla spinta di diverse nazionalità sparse nel mondo (in seguito a pogrom e discriminazioni antisemite di varia natura) accomunati da una fede religiosa e da una cultura di formazione ebraica. Un sentimento che diventa organizzazione politica: il movimento sionista (d’ispirazione socialista), ossia il sogno di vivere in un territorio originario, quello della Palestina, di oltre duemila anni prima. Dotato di efficienti strutture organizzative (a partire da quella militare Haganah, sorta in difesa degli insediamenti) e grande passione ideale, il sionismo promuoveva l’ingresso di ebrei della diaspora sparsi nel mondo (in particolare Stati Uniti, Europa e anche Stati arabi).

Per conoscerne la storia occorre risalire alla Bibbia e al Vangelo: stiamo parlando dei tempi di Re Davide e di Salomone (prima di Cristo) e del periodo dell’Impero romano, della nascita di Gesù, ebreo in terra di Palestina (Galilea, Samaria, Giudea). Pensiamo ai viaggi dell’apostolo Paolo (ebreo nemico dei cristiani, convertitosi a Cristo sulla via di Damasco). Gerusalemme è l’esempio più evidente della confluenza di diverse religioni e culture: in primo luogo gli ebrei (Muro del pianto dove era situato il primo tempio) e i cristiani per la nascita/Natività e morte/Santo Sepolcro di Gesù; poi i musulmani che costruirono la grande moschea di Omar (Cupola della Roccia, per importanza il terzo luogo di culto mondiale). Esistono anche santuari condivisi dalle tre religioni come le tombe di Rachele a Betlemme e le tombe di Giuseppe e Abramo a Hebron.

Il Novecento

Se limitiamo la nostra ricostruzione storica al Novecento notiamo che Tel Aviv nasce come insediamento ebraico nel 1909 e l’università ebraica di Gerusalemme nel 1925, mentre, negli ultimi quattro secoli e fino alla fine della Prima guerra mondiale, la Palestina apparteneva all’impero ottomano.

Il 2 novembre del 1917, l’area palestinese, allora sottoposta al controllo britannico, con la Dichiarazione del ministro degli esteri Balfour  riconosceva il diritto degli  ebrei ad avere “a national home” (un focolare domestico).

Ma sarà con la fine della seconda guerra mondiale, e lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti e dei loro alleati fascisti, che lo stato d’Israele comincia delinearsi come concreta possibilità.

Il 29 novembre 1947, infatti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva un piano di spartizione del territorio tra gli ebrei e gli arabi e stabilisce un regime internazionale per Gerusalemme. Gli ebrei accettarono, mentre gli arabi lo considerarono un’invasione. E quando, il 14 maggio dell’anno successivo, Ben Gurion proclamava la “Dichiarazione d’indipendenza” dello Stato d’Israele, nasceva il primo conflitto arabo-israeliano, che porterà all’espulsione di circa 800 mila palestinesi sparsi nei campi profughi di diversi stati (Libano, Giordania, Egitto) e nella stessa Cisgiordania.  Espulsione vissuta come Nakba (catastrofe); la stessa sorte, pur in forme diverse, toccava agli ebrei residenti nei paesi arabi. Nasceva lo status del “rifugiato palestinese”  riconosciuto dall’Onu (Unrwa). In quel periodo i cittadini israeliani erano dai 700 agli 800 mila, una cifra in continuo aumento per l’afflusso di diverse ondate di arrivi, fino a raggiungere negli anni ’50 due milioni di abitanti e negli anni ‘90 i 5 milioni.

Oggi, secondo le statistiche ufficiali, gli israeliani sono 9 milioni 300 mila, di cui il 21% arabi, (quasi due milioni, compresi il 9% di cristiani), che risiedono in un territorio di 22.072 Kmq. La “legge del ritorno”, approvata dal parlamento israeliano (Knesset), favoriva la formazione degli ebrei come popolo, che ritornava nella terra dei padri, anche se sulle caratteristiche dell’ebraicità la discussione è sempre aperta: ebrei  i nati da madre ebrea, ebrei come pratica religiosa o come cultura. Fu comunque una mirabile esperienza di formazione di una società multietnica e multiculturale. E’ interessante sottolineare come il peso della storia si riveli anche nelle definizioni e si parli di due principali comunità originarie: i “sefarditi” (che discendono addirittura dagli ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492!) e gli ashkenaziti (provenienti dalle migrazioni dei paesi dell’Est Europa,  di lingua yiddish).

Il fervore religioso delle origini si mescolava con un’idea di società comunitaria strutturata nei kibbutzim: socializzazione dei mezzi di produzione, partecipazione collettiva alle decisioni, democrazia dal basso, solidarietà diffusa. Un ruolo importante nel promuovere queste avanzate forme di cooperazione svolgeva il sindacato, Histadrut, che assumeva anche un potere economico (amministrazione di fondi pensione, partecipazione nelle grosse industrie)

Guerra dei sei giorni

Nel 1967 contro i proclami anti israeliani del Presidente egiziano Nasser (coalizzato con la Siria e la Giordania), Israele (governato dal socialista Levi Eshko, capo di stato maggiore generale Ytzhak Rabin e ministro della difesa Moshe Dayan) interviene d’anticipo e in appena sei giorni sconfigge gli avversari. E’ il momento di maggior orgoglio militare e nazionale: muoiono sul campo di battaglia 20 mila arabi a fronte di 676 israeliani; viene annessa la Cisgiordania, Gaza e le alture del Golan. Sembrava realizzarsi, per le componenti religiose più ortodosse, il sogno del “Grande Israele”, di biblica memoria. Ma gli odi e i conflitti armati, compreso il terrorismo di alcuni gruppi palestinesi, s’intensificavano.

Negli anni ’70 tra le operazioni di terrorismo più clamorose, ricordiamo l’uccisione, durante le olimpiadi di Monaco di  11 atleti israeliani da parte del gruppo “Settembre nero”.

Guerra dello Yom Kippur

Nel 1973 Israele (governo di Golda Meir, laburista) si fa sorprendere dagli attacchi dei paesi arabi durante la celebrazione dello Yom Kippur (6 ottobre, festività dell’Espiazione), ma poi riesce, grazie anche degli aiuti americani, a prevalere.

In Italia quell’anno viene soprattutto ricordato per lo “shock petrolifero” (aumento del prezzo della benzina) e le misure adottate per il risparmio energetico (domeniche a piedi).

Il 6 giugno 1982 assistiamo a una nuova guerra e all’invasione israeliana del Libano del Sud; le truppe entravano a Beirut sostenute anche dai cristiano maroniti di Gemayel (movimento di destra), che massacrano centinaia di rifugiati palestinesi (dai 500 ai 700 morti) nei campi profughi di Sabra e Chatila. Nello stesso anno il Sinai viene restituito agli egiziani.

Il governo israeliano avvia un vasto programma di insediamenti ebraici nei territori occupati della Cisgiordania dove nel 1993 vi abitavano 110 mila persone e ormai raggiungono oltre 500 mila, accompagnati dalla costruzione di lunghi muri di protezione, contravvenendo tutte le disposizioni dell’Onu.

Diversi sono stati i momenti di ribellione, chiamati “Intifada” da parte dei giovani palestinesi dei territori occupati (1987 e 2000) e dalla conseguente dura repressione dell’esercito israeliano.

Tra i diversi gruppi terroristi, nel 1987 viene costituito “Hamas” che ha l’obiettivo, previsto dal suo Statuto, di conquistare l’intera Palestina, istituire una repubblica rigorosamente islamica e distruggere lo Stato d’Israele; inoltre considera l’Olocausto una “leggenda sionista”.

Il Consiglio nazionale palestinese, presieduto da Arafat, nel riconoscere le risoluzioni dell’Onu, aveva invece l’obiettivo di costituire un proprio Stato nei territori occupati della Cisgiordania e di Gaza. Obiettivo mai raggiunto. Nel 1994 Arafat, capo dell’OLP era ritornato a Gaza, dopo anni di esilio.

Quando nel 2005 la striscia di Gaza viene restituita all’Autorità palestinese (ANP), Hamas attua un’opera di penetrazione e proselitismo che la portano a vincere le elezioni contro Al Fatah e contrapporsi alla stessa Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), considerata una struttura moderata.

Gli accordi di pace

Nel corso degli anni non sono mancati gli accordi di pace.

1979 Accordi di Camp David  e Trattato di pace (Stati Uniti)

Il percorso di pace comincia nel novembre 1977 quando il Presidente dell’Egitto Sadat si reca a Gerusalemme e l’anno dopo si sottoscrivono gli Accordi di Camp David e poi un vero e proprio trattato di pace tra Israele (Begin) ed Egitto (Sadat), mediato da Jimmy Carter (26 marzo 1979). Gli altri paesi arabi, a cominciare dalla Siria di Assad e dal Libano, considerarono l’Egitto un paese traditore, che viene espulso dalla Lega araba. Sadat sarà ucciso nel 1981 da un estremista islamico.

Ma non ci sono solo i paesi arabi, nel 1964 emerge un altro importante protagonista l’Olp (Organizzazione per la  liberazione della Palestina) di Yasser Arafat, il cui gruppo di fedayn s’insedia nel sud del Libano, un paese che però verte in una tragica guerra civile.

1993 Accordi di Oslo (Norvegia)

Sono gli accordi siglati con la mediazione del Presidente americano Bill Clinton immortalati dalla stretta di mano con Arafat e Rabin e per i quali ottengono il Premio Nobel per la pace. Accordi che prevedevano un riconoscimento reciproco: i palestinesi riconoscono l’esistenza di Israele e gli israeliani considerano l’OLP interlocutore per i negoziati; costituzione dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese, per il governo delle zone assegnate). Soltanto il 17% del territorio dove abitava il 55% dei palestinesi ottiene autonomia amministrativa, mentre la maggioranza del territorio pari al 59% rimaneva israeliano. A questa intesa risponde un estremista ebreo che nel novembre 1995 uccide Yitzhak Rabin.

Negli ultimi cinque anni all’interno di Israele sono avvenuti fatti politici rilevanti. Nel 2018, in un sussulto di nuovo nazionalismo identitario, è stata approvata la “legge fondamentale” che definisce Israele “Stato nazionale del popolo ebraico” e Gerusalemme capitale. Una definizione che non tiene conto della presenza, pur significativa, degli arabi nel proprio territorio, che infatti l’avevano qualificata come “legge coloniale”. Alle elezioni del novembre 2022, grazie all’alleanza con le forze estremiste di destra e con i fondamentalisti religiosi, vince ancora Benjamin Netanyahu, ma in tutto il paese si sviluppa un forte movimento di cittadini scesi in piazza per 39 settimane consecutive contro il suo progetto di legge autoritario teso a limitare l’autonomia della magistratura.

Al 20 ottobre le perdite umane di questa nuova guerra sono di oltre tremila palestinesi e 1500 israeliani. Hamas ha un ufficio di rappresentanza nel Qatar ed ha potuto realizzare l’attacco con l’aiuto dell’Iran, che sostiene anche il gruppo terrorista libanese Hezbollah. Gaza al Nord confina col Libano e al Sud con l’Egitto.

Dopo la distruzione dell’Ospedale cristiano battista di Gaza (Israele accusa i terroristi palestinesi e questi accusano gli israeliani) dove sono morti 500 persone si sono estese, in maniera più radicale, le rivolte delle popolazioni dei paesi arabi a fianco dei palestinesi, anche in paesi come la Giordania più vicina all’Occidente.

Di fronte a questo delirio di odio e di violenza, non dobbiamo dimenticare quelle esperienze, come i gruppi di israeliani e palestinesi che lottano sinceramente per la pace. Il Movimento “Shalom Pace adesso” (fondato nel 1978 in seguito alla visita di Sadat) e il villaggio “Neve Shalom”, fondato da Bruno Hussar e costituito da una settantina di famiglie ebree e arabe palestinesi nel Distretto di Gerusalemme, dimostrano la possibilità di vivere insieme.

Che fare? Riprendere le risoluzioni dell’Onu: da una parte garantire la sicurezza d’Israele, dall’altra costituire lo Stato di Palestina.

Se non si affronta in maniera netta la storica questione palestinese, le guerre continueranno all’infinito.

 

Un quadro di sintesi del territorio di Israele /Palestina da Salvatore Vento

One Comment

  1. E SE LA GUERRA NON FOSSE LO STRUMENTO PIU’ IDONEO PER RISOLVERE IL CONFLITGTO ISRAELO/PALESTINESE?

    Leggo con la solita dovuta attenzione l’intervento dell’On. Raniero La Valle del 13 ottobre 2023 dal titolo “Piangere su Gerusalemme” pubblicato lo stesso giorno sul quotidiano on line Grotte.info.Quotidiano.
    Mi soffermo a riflettere sull’incipit del suddetto intervento dove l’Autore ci ricorda che Gesù Cristo quando entra a Gerusalemme con i suoi discepoli, quel giorno (che la nostra liturgia poi chiamerà Domenica delle Palme), la folla, così come ci dice l’Evangelista San Luca nel suo Vangelo (cap. 19), lo acclama e lo applaude dicendo:
    “Benedetto colui che viene,
    il re, nel nome del Signore.
    Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli”.
    Ma Gesù non si compiace affatto di questo successo di popolo che in corteo lo accompagna verso il Tempio. Anzi, nonostante gli applausi e gli osanna che la folla gli tributa, vedendo dall’alto la città di Gerusalemme, piange su di essa dicendo: “Gerusalemme, se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi…”
    Nonostante siano trascorsi duemila anni risuona ancora alle nostre orecchie il richiamo di Gesù alla città di Gerusalemme per il fatto di non aver “compreso cosa porta alla pace”. La pace! Un tema più che mai attuale in questi giorni: basti pensare alla tragedia che stanno vivendo Palestinesi e Israeliani.
    Ma cosa porta alla pace?
    E’ una domanda che esige una risposta scevra di ogni ambiguità. La risposta ce la fornisce lo stesso La Valle richiamando il filosofo spagnolo Raimundo Panikkar secondo cui “la pace non si raggiunge mai con la vittoria di uno dei due litiganti perché prima o poi il vinto risorge e si vendica”.
    Altrimenti detto: una pace duratura non si raggiungerà mai attraverso la vittoria di una delle due parti in conflitto a scapito dell’altra.
    E poiché la vittoria presuppone lo svolgimento di un conflitto, ci sia consentito affermare che:
    -la guerra non è la strada maestra che porta ad una pace duratura.
    -la pace fugge sia dal campo dei vincitori che dal campo dei vinti.
    Ma se escludiamo il ricorso alla guerra come potremo risolvere il conflitto israelo/palestinese e raggiungere una pace duratura?
    Ci insegna il Monaco del Mondo che:
    “LA PACE SI FA CON AGO E FILO,
    RICUCENDO LE FERITE,
    NELLA LABILE SPERANZA
    CHE POSSANO SMETTERE DI SANGUINARE”.
    Mettiamo quindi da parte bombe e cannoni e attrezziamo i contendenti di strumenti più umili quali sono ago e filo.
    Giuseppe Castronovo
    gcastronovo.blogspot.it

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