Per una nuova cultura del lavoro

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di Sandro Antoniazzi

 

Agli inizi degli anni ’90 è avvenuto in Italia un vero stravolgimento politico. In un arco brevissimo di tempo sono scomparsi i vecchi partiti, per lasciar posto a formazioni del tutto nuove con una cesura netta rispetto alle culture precedenti e prive di tradizione.

Aprendo una riflessione sulla cultura del lavoro, sembra importante richiamare un fatto che, nonostante la sua importanza, è stato ampiamente trascurato.

I partiti di un tempo erano chiamati partiti “operai”, non sono per le loro origini, ma anche per il loro compito storico di rappresentare politicamente la classe operaia, i lavoratori. E poi c’era la DC, partito di centro, ma rappresentativo di molti lavoratori.

I partiti operai, comunista e socialista, avevano ancora in comune una tradizione di pensiero imponente, prodotta da un’infinità di studiosi di valore, oltre che da grandi movimenti politici (la socialdemocrazia tedesca, il laburismo inglese, la tradizione francese…), per citare solo i maggiori.

Questo patrimonio immenso, elaborato nel tempo con tanta cura, patrimonio tanto dei vertici quanto della base, che veniva coinvolta con giornali libri, opuscoli, è svanito di colpo.

Esso era pensiero che guidava l’azione, che motivava l’impegno, base di riferimento per poi progredire.

Esso è ormai materia morta, superata, che interessa quasi solo gli studiosi.

Ma come è possibile che una cultura di tale rilievo possa sparire senza lasciare traccia?

Come è possibile che una cultura che ha sostenuto e orientato le lotte dei lavoratori per oltre cento anni sia totalmente accantonata, mentre sicuramente tante di quelle elaborazioni potrebbero avere da insegnarci ancora oggi?

E, dato per scontato che doveva esser superata, come è possibile pensare che, se si cancella un’intera cultura, non si pensi a come sostituirla, come subito preoccuparsi di impegnarsi per un’altra?

Abbandonando i vecchi partiti e dando vita a nuove formazioni non ci si è chiesti quale cultura questi avrebbero dovuto avere e come realizzarla.

Veniamo così al problema di fondo.

Qual è oggi la cultura del partito più rappresentativo dell’area di centro – sinistra, il Partito Democratico?

Ritengo che una risposta sia praticamente impossibile: nelle dichiarazioni iniziali si parlava dell’incontro tra le diverse culture di provenienza, ma nella realtà nulla è stato fatto in questa direzione (forse per le difficoltà che si presentavano), ma certamente non sarà il caso a risolvere il problema.

In sostanza il Partito Democratico è senza una cultura degna di questo nome, ma un partito di sinistra non può fare a meno di avere una solida cultura di riferimento.

La destra risolve facilmente il problema: i suoi valori tradizionali sono Dio, patria, famiglia e poi pensa a gestire l’esistente.

Ma un partito di sinistra ha finalità ben più ambiziose. Il suo compito è quello di trasformare la realtà, di migliorare la società, di realizzare per quanto gli è possibile i grandi valori di libertà, eguaglianza, fraternità.

E questa cultura è per sua natura dinamica, progressista, perché deve seguire l’evoluzione della società per poter esprimere il suo compito in modo sempre adeguato ai tempi.

 

Ma quale cultura è possibile nella società attuale così complessa e articolata?

Certamente non si può pensare alla cultura di tipo ideologico di un tempo, cultura che aveva la pretesa di fornire una spiegazione universale del mondo intero e di sapere indicare anche il futuro della società.

Le scienze si sono affermate in molteplici campi, le attività umane hanno ormai un’estensione smisurata, le forme di pensiero si sono diversificate e specializzate. In sostanza diventa improponibile una sintesi dell’esistente.

Ma per un partito e per i suoi compiti può essere sufficiente e adeguata un’idea più modesta di cultura.

Se sui principali temi essenziali della sua attività (politica internazionale, politica economica, politica ambientale, politica del lavoro…) definisse delle posizioni basilari, “fondamentali” (per usare i termini della SPD tedesca), l’insieme di queste posizioni rappresenterebbero un sufficiente quadro di riferimento.

Naturalmente queste posizioni non hanno un valore perenne; hanno valore per un certo numero di anni, dopo di che vanno riviste, aggiornate.

Per poter raggiungere questo scopo il partito ha bisogno del contributo di intellettuali, di cui in questo momento non dispone, ma gli intellettuali in Italia sono molti e non mancheranno certamente quelli disponibili a questa impresa.

Non si tratta di ritornare agli intellettuali organici, ma di proporre gruppi di lavoro che si impegnino su un tema producendo contributi e elaborati,  da discutere più ampiamente e infine definire in sede deliberante.

Si metterebbe fra l’altro in moto un processo in cui avemmo costantemente un lavoro intellettuale collettivo e finalizzato, rappresentando qualcosa di nuovo e più efficace del tanto lavoro intellettuale individuale isolato.

 

Però una cultura basata sui grandi temi non è sufficiente per un partito che si propone (con modestia) di cambiare la società: ciò che manca è una visione, un’idea della società che vogliamo.

Questo compito è certamente più arduo di quello precedente, eppure è necessario avere un’idea dei rapporti sociali, del rapporto uomo-donna, dei rapporti di lavoro, della società nel suo insieme.

Non si tratta certo di avere un pensiero compiuto, ma di saper esprimere delle indicazioni orientative di base su cui poi poter sviluppare un impegno permanente.

I caposaldi di una prospettiva che delinei il nostro orizzonte possono essere ben rappresentati dai grandi principi storici di libertà, uguaglianza e fraternità.

La libertà è il punto di partenza essenziale: siamo risolutamente per una società di uomini liberi.

L’uguaglianza significa realizzare le condizioni essenziali di giustizia sociale che consentano a tutti gli uomini di poter godere di una libertà adeguata.

La fraternità ci richiama il miglior modo di vita possibile tra gli umani e l’attenzione verso chi ha più bisogno.

Quest tre condizioni, nel loro insieme, realizzano la società giusta, una società dove non esistono molti più forti, che possono esercitare potere indebito sugli altri.

La “visione” poi non deve essere statica, ma dinamica, guardare al futuro.

Una volta il futuro era il “socialismo”, ma possiamo anche chiamarlo società giusta, società umana e solidale; non importa il nome, importa la sostanza.

Per esprimere meglio l‘idea faccio riferimento alle posizioni di due grandi “socialisti” (in senso ampio) di ieri, Enrico Berlinguer e Bruno Trentin.

Fino all’ultimo Berlinguer si è dichiarato anticapitalista; nei suoi discorsi ritorna spesso la frase. ”La socialdemocrazia vuole il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, noi vogliamo il superamento del capitalismo”.

E’ chiara l’aspirazione ad una società diversa, ma il modo di porre il problema rende difficile la soluzione: il discorso propone sostanzialmente due società, una capitalista e una socialista.

Le difficoltà stanno nel definire la seconda (con il tragico passato delle esperienze fatte) e come realizzare il passaggio da un sistema all’altro (tenendo conto di che cosa è oggi la società capitalistica).

Cito ora un lungo brano dagli ultimi scritti di Bruno Trentin che fornisce a riguardo un’idea diversa, più realistica e praticabile.

“Il socialismo non è più un modello di società compiuto e conosciuto, al quale tendere con l’azione politica quotidiana. Esso può essere concepito soltanto come una ricerca ininterrotta sulla libertà della persona e sulla sua capacità di autorealizzazione, introducendo nella società concreta degli elementi di socialismo – le pari opportunità, il welfare di comunità, il controllo dell’organizzazione del lavoro, la diffusione della conoscenza come strumento di libertà, superando di volta in volta le contraddizioni del capitalismo e dell’economia di mercato, facendo della persona e non solo delle classi, il perno di una concezione civile”

Al di là del riferimento al socialismo – come ho già detto non importa il nome, ma la sostanza -questa prospettiva si presenta accettabile universalmente (anche dai cattolici) e soprattutto potrebbe costituire l’orizzonte ideale e di pensiero di un partito come quello Democratico.

 

Una cultura del lavoro attuale.

Tra le questioni fondamentali che il partito deve assumere tanto nella propria concezione tanto nella propria azione, sta certamente il lavoro.

Il lavoro è al centro della vita sociale e dei rapporti tra gli uomini; tanto più il lavoro è libero, tanto più gli uomini saranno liberi.

Il lavoro è innanzitutto il modo normale con cui miliardi di persone nel mondo si guadagnano da vivere (con fatica).

Il lavoro poi consente ad ogni persona di esprimere sé stesso, le proprie capacità e qualità, il proprio contributo personale (ogni persona ha bisogno di essere riconosciuto e il lavoro rimane ancora un modo essenziale per dimostrarlo).

E poi il lavoro ha un enorme rilievo sociale. Da una parte è sempre una grande occasione di rapporti sociali (la classe lavoratrice), dall’altra il lavoro è un fattore essenziale della produzione della ricchezza. (Nonostante le nuove tecnologie, i robot e l’intelligenza artificiale, il lavoro sarò sempre necessario e importante).

Il lavoro è dunque un’importante espressione di essenziali valori umani e riveste un ruolo centrale nei rapporti economici-sociali. Un partito che, si rivolge alla società per cambiarla, trasformarla, renderla sempre più umana, non può trascurare il lavoro come se fosse un problema qualunque. E’ qui che in larga misura passano i cambiamenti della società.

Insomma, il lavoro non è un problema come altri e per questo tanta parte della storia del lavoro va conservata e continuata.

Poiché il problema che ci si pone è come passare dalla concezione del lavoro di ieri (che aveva al centro il ruolo della classe operaia) ad una concezione più adeguata alla presente situazione del mondo del lavoro, sembra opportuno realizzare qualche confronto.

Scegliamo in proposito tre questioni.

  • La questione del plusvalore e dello sfruttamento,
  • Il ruolo guida della classe operaia
  • La supremazia del partito sul sindacato.

 

  1. E’ nota la teoria di Marx sul plusvalore. L’operaio lavora ma non riceve tutto il valore del suo prodotto, una parte rimane al padrone ed è il plusvalore. Nella visione di Marx il plusvalore è un concetto economico, l’operaio riceve meno del dovuto e ciò che rimane al capitalista gli consente il suo sviluppo e il suo dominio. Da qui l’esigenza di modificare radicalmente questa situazione con la lotta operaia.

Ma già negli anni 30, Simone Weil criticava questa impostazione. Se la classe operaia è ridotta in condizioni pietose, disumane, di dipendenza e oppressione come può questa classe operaia domani gestire le aziende e il paese?

Secondo Weil il problema dell’oppressione viene prima dello sfruttamento, perché solo facendo uscire la classe operaia dallo stato di oppressione può assumere un ruolo attivo.

Ora il movimento dei lavoratori, nella sua lotta storica ha sempre privilegiato i problemi economici e materiali, trascurando l’altro aspetto delle condizioni dei lavoratori, quello della libertà.

Ma molti lavoratori oggi – per cultura, evoluzione sociale e civile -pur avendo salari soddisfacenti, sentono in modo crescente il problema della libertà del lavoro.

Del resto, il dibattito attuale sul rapporto – “lavoro-vita” – non esprime chiaramente questa esigenza?

Una moderna politica del lavoro, senza trascurare il salario e le condizioni materiali (indispensabili alla vita umana) dovrà dare larga importanza al tema della libertà del lavoro, che ha avuto sinora poca considerazione, ma che sta sempre più emergendo.

 

  1. La classe operaia proprio perché sfruttata era la prima ad esser interessata alla propria liberazione e da qui il suo ruolo guida.

La classe operaia sembrava al tempo di Marx sempre più concentrarsi fisicamente nelle grandi fabbriche, dove secondo “Il Manifesto”, prendeva forza e coscienza.   Gli operai sono ancora moltissimi, ma oggi o sono dispersi oppure concentrati in aree lontane, dove i diritti scarseggiano.

In una situazione dove l’economia è diventata mondiale e sempre di più lo è anche il lavoro, divisa in tanti Stati ognuno con una propria realtà e una propria legislazione, dove dominano le multinazionali, le tecnologie, l’intelligenza artificiale, è difficile anche solo pensare che quell’idea possa avere ancora valore.

In Italia, come in tutto l’Occidente, il lavoro ormai prevalente è il lavoro terziario, frantumato, differenziato, disarticolato; e nel mondo prevale il lavoro informale, senza contratti e senza leggi. Abbiamo dunque di fronte una situazione del tutto nuova da affrontare. Questa situazione di masse sempre più ampie, in tante situazioni diverse, ma accomunate da una sostanziale condizione omogenea, viene da molti definita col termine “moltitudine”.

Già il vangelo usava il termine per indicare una massa senza “pastore”, senza guida, come è appunto la situazione attuale.

Ma il termine moltitudine è termine più descrittivo che definitorio. Offre un’immagine adeguata della situazione delle masse, non che cosa fare (in realtà propone anche alcune proposte apprezzabili, come quella del “comune”, ma non certo generalizzabili).

Dunque, il grande problema attuale rimane come unire queste masse disperse e come offrire loro un orientamento; problema enorme per il quale le soluzioni sono ancora da individuare.

Indubbiamente non si può pensare di avere una risposta totalizzante come era la classe operaia; occorre ricostruire una certa unità attraverso passaggi successivi, risultati parziali, soluzioni intermedie.

In particolare, se è impossibile una unità tout court dei lavoratori, va rilevato che esistono problemi trasversali che coinvolgono ampi strati di lavoratori: la precarietà, la necessità di una formazione permanente di fronte all’avanzare delle tecnologie, il tema della partecipazione, il rapporto lavoro-vita.

Le battaglie sui temi che coinvolgono un gran numero di lavoratori rappresentano concretamente e simbolicamente una strada importante verso una prospettiva unitaria.

 

  1. Nella visione di un tempo, il ruolo della leadership spettava al partito, di cui il sindacato era dipendente. Così, a esempio, è stato per il Partito Comunista Italiano, fino all’ultimo.

Posso a riguardo citare un episodio significativo: in occasione della vertenza sulla scala mobile ci fu un incontro riservato fra Berlinguer e Carniti.

In quell’occasione Berlinguer non oppose critiche di merito alla proposta della Cisl, che costituiva la materia del contendere, ma affermò che una decisione di quella natura era compito del partito della classe operaia.

Passato quel periodo e superato il ruolo di supremazia del partito, si sono praticamente esauriti anche i rapporti tra partito e sindacato.

Se era sbagliata e superata la modalità, è invece altrettanto sbagliato abbandonare ogni rapporto, perché i problemi del lavoro sono largamente comuni e sarebbe un grande fattore di debolezza se si andasse in ordine sparso, magari in direzioni divergenti.

Occorre pensare – ma trattandosi di associazioni indipendenti, sta nella loro libertà – di stabilire confronti permanenti, generali e specifici, perché tanto più gli orientamenti saranno condivisi, tanto più forti e convincenti saranno per i lavoratori.

Un’occasione importante per sviluppare questi rapporti avrebbe potuto essere la battaglia sul salario minimo. Battaglia giusta e sacrosanta, ma con evidenti limiti di impostazione.

Si sarebbe dovuta realizzare un’intesa col sindacato e questo avrebbe dovuto aprire una vertenza con la Confindustria sui contratti con salari troppo bassi e per introdurre meccanismi di difesa dall’inflazione. Si potrebbe pensare a contratti che durano 3-4 anni perla parte normativa, ma che a metà periodo, rivedono solo la parte salariale.

Se a questa lotta contrattuale si fosse affiancata la battaglia parlamentare avremmo avuto ben più forza per poter conseguire dei risultati positivi.

Questo lavoro non deve rimanere collocato solo al vertice. A livello di base è necessario un lavoro continuo per fare in modo che rivendicazioni (sindacali) e visione politica coincidano: le rivendicazioni non hanno solo un senso di conquista materiale, ma devono costituire un progresso nell’emancipazione dei lavoratori.

Le idee esposte forniscono alcune indicazioni di lavoro cui naturalmente se ne potrebbero aggiungere altre. Ma è inutile stilare elenchi se poi manca un impegno per svilupparle nella realtà, trasformandole in idee condivise che diventano progressivamente cultura comune.

 

Come realizzare una cultura del lavoro nel Partito Democratico.

 

Passiamo ora ad un piano più pratico, per verificare le concrete condizioni affinché queste proposte possano trovare accoglienza e implementazione.

Innanzitutto, per affrontare un impegno come quello qui proposto, occorre un partito diverso.

Abbiamo un partito dove la maggior parte dei dirigenti, ma anche degli iscritti, guarda vero l’alto, alla politica nazionale e generale.

Occorre un partito il cui primo problema sia costituito dalla base, dal lavoro di base, nel territorio, fra la gente, sui problemi reali avvertiti dalle persone.

Un partito democratico non è un partito d’opinione che funziona attraverso i mass meda, TV e social. E’ un partito che deve avere una base solida, attiva e funzionante, su cui poggia l’intera costruzione.

Il primo problema da affrontare sono dunque i circoli.

CI sono circoli che fanno qualche riunione all’anno chiamando qualche dirigente: sono chiaramente inadeguati. E a che cosa serve prendere la tessera se poi si sta a guardare come spettatori quello che succede, magari criticando?

Non è questo ciò di cui abbiamo bisogno.

Ogni iscritto dovrebbe essere un militante attivo, una persona che già a livello personale porta avanti nella società non solo le idee del partito, ma proposte concrete per affrontare i problemi che incontra.

I circoli diventano allora gruppi di lavoro che scelgono i problemi su cui impegnarsi collettivamente per dare così maggiore efficacia alla propria azione politica.

La forza del partito non sta in qualche posizione nazionale, per quanto giusta, ma sta piuttosto nel lavoro collettivo di migliaia e migliaia di persone che si impegnano ogni giorno e assicurano al partito solidi rapporti con la società.

Avere in larga misura abbandonato il lavoro di base (grazie anche a riforme organizzative passate troppo sbrigativamente e poco meditate) ha portato anche a una debole presenza in molti territori.

Pr fare l’esempio della Lombardia, esistono intere province e aree dove la destra ha conquistato un’ampia maggioranza che sembra difficile da scalfire. Dobbiamo rassegnarci a questo stato di cose? Pensiamo che saranno i discorsi nazionali a convincere questi territori a cambiare opinione? O non sarà piuttosto un paziente e costante lavoro della base a impegnarsi in un’azione di recupero?

In altre parole, il lavoro attuale del partito è quasi esclusivamente rivolto dall’alto verso il basso, in una tendenza top-down: lavoro importante e necessario, ma decisamente incompleto se manca dell’altra metà che lo completa, quello dal basso verso l’alto, down-top. Questo è quasi del tutto assente, mentre è condizione irrinunciabile di un partito che intenda avere una base sociale che opera nella società.

Questo “umile” lavoro di base è non solo necessario, ma decisamente indispensabile per i problemi del lavoro, per il semplice motivo che può essere svolto solo dai diretti interessati, i lavoratori.

Si tratta di un impegno ricostruttivo che, una volta avviato, si sviluppa progressivamente perché i problemi del lavoro sono molti e tutti collegati fra loro e mettendoci mano man mano la visione si allarga e si chiarisce.

A Milano, a partire da un circolo (Bellezza-Vigentino) e da una Zona (Zona 5 del PD) si è iniziato a sviluppare un’azione promettente in questo senso.

Da una parte si è sviluppato a livello d Municipio un intenso lavoro sul territorio, aprendo uno sportello funzionante per chi cerca lavoro, ma soprattutto sviluppando rapporti con le imprese, con le categorie rappresentative e sviluppando attività promozionali nei confronti dei lavoratori. Questa attività si presenta oggi come un esempio positivo e quasi un modello per Milano.

In secondo luogo, si è sviluppato un rapporto con altri circoli per affrontare il problema della cultura del lavoro nel partito: l’iniziativa ha avuto successo e si è iniziato a mettere a fuoco alcune indicazioni significative.

Ora si lancia una nuova proposta: un’inchiesta popolare sui  punti rilevanti che attraversano il lavoro (1.democrazia, partecipazione e qualità del lavoro; 2.pari opportunità; 3.lavori poveri, salario, formazione), inchiesta che impegna innanzitutto gli iscritti e che consentirà di avvicinare molti altri lavoratori.

Se altri circoli parteciperanno, potrà costituire un’occasione per determinare una più forte influenza nel partito in tema di lavoro.

La conclusione dell’inchiesta sarà un convegno, dove oltre la presentazione del lavoro fatto, ci confronteremo con gli studiosi del problema: fare incontrare l’esperienza e il lavoro della base con le elaborazioni degli studiosi è infatti un fine che ci proponiamo: è il modo per verificare il lavoro reciproco e per rendere più fruttuoso il lavoro di entrambi.

Questo problema assume poi una dimensione più ampia che è bene richiamare: il lavoro comune tra intellettuali e base dovrebbe diventare un fatto usuale, un costume permanente. Così avveniva una volta, mentre adesso assistiamo a una separazione totale, che produce solo un senso di vuoto. Questa è un’altra questione essenziale per il rilancio di una cultura del lavoro nel partito.

Siamo entrati consapevolmente in esempi concreti, perché è da un lavoro realizzato con modestia e pazienza che si potrà ricostruire una cultura del lavoro, in un mondo complesso. Le iniziative citate non solo fanno emergere un’infinità di esperienze e di idee, ma offrono progressivamente anche la possibilità di uno sguardo generale, inizio di quella cultura del lavoro che il partito dovrebbe assumere.

 

di Sandro Antoniazzi 

 

 

 

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