Dal Terzo Settore all’economia sociale.

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di Sandro Antoniazzi

  1. Che cos’è il Terzo Settore?

Il Terzo Settore o settore non profit – che affianca i due più grandi e noti settori, il privato e il pubblico – è nato sostanzialmente da un’azione volontaria diffusa.

Il volontariato libero è stata un’espressione immediata e non organizzata per rispondere a bisogni inappagati e a domande sociali che insorgevano e non trovavano risposta.

Man mano che ci si impegnava ad affrontare i problemi, nasceva l’esigenza di dare continuità all’iniziativa, di organizzarsi, di trovare risorse: il volontariato avvertiva il bisogno di rafforzarsi, di dotarsi di strutture più robuste, dando vita così alle prime cooperative sociali (ante litteram).

Il movimento cresceva, le esigenze si ampliavano, la questione assumeva una evidenza pubblica che sollecitava un intervento da parte delle autorità.

Si giunge così all’approvazione di una serie di leggi per singoli settori o specie giuridica: la legge sul volontariato (1991), sulle cooperative sociali (1991), sulle ONLUS (1997), sulle associazioni di promozione sociale (2000).

A conclusione di questo processo è maturata l’idea che fosse meglio includere questi vari enti in una normativa unica, che raccordasse le diverse iniziative e desse loro un carattere comune: ciò è avvenuto con la definizione del decreto legislativo 117/2017, Codice del Terzo Settore.

La legge stabilisce gli scopi e le attività, le tipologie degli enti che fanno parte del settore, i rapporti con la Pubblica Amministrazione, il registro unico, le forme di finanziamento, stabilendo delle norme valide per tutti gli enti, salvaguardando allo stesso tempo le normative specifiche precedenti.

L’art.1, rifacendosi agli articoli della Costituzione, afferma le finalità fondamentali: “Al fine di sostenere l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa…”, mentre l’art. 2 ne richiama la funzione essenziale che è vista nel “loro apporto originale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”.

L’art.4 elenca, in forma tassativa, gli enti del Terzo Settore: le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale.

E’ da tener presente che “impresa sociale” non sta a significare una categoria giuridica fra le altre, ma invece una “qualità” riservata a organizzazioni private che perseguano le finalità richiamate, operano nei campi definiti, osservano la trasparenza e destinano gli utili prevalentemente all’oggetto sociale.

Non fanno invece parte del Terzo Settore le cooperative non sociali che, in altri paesi, sono invece considerate appartenenti al settore dell’economia sociale.

A livello internazionale ed europeo la classificazione dei vari enti sociali non ha ancora trovato una chiara definizione; ad esempio in USA prevale il termine non profit (cui appartiene qualunque azienda col solo vincolo delle destinazione degli utili a scopi sociali); l’Unione Europea considera quattro categorie di enti appartenenti all’economia sociale (cooperative, mutuo soccorso, associazioni, fondazioni) comprendendo tutte le cooperative e riconoscendo che esistono altre forme diverse a seconda dei paesi, che sono ancora da definire.

In Italia, Stefano Zamagni propone il termine di “economia civile”, che però è sconosciuto all’estero, dove è generalmente usato quello di “economia sociale” (che adottiamo anche noi).

Esistono poi tante terminologie diverse, ognuna delle quali sottolinea uno specifico carattere: economia associativa, economia popolare, economia alternativa, economia solidale, ed altre ancora.

In questi anni, nel nostro paese, il Terzo Settore si è largamente sviluppato: secondo gli ultimi dati ISTAT (relativi al 2020) gli Enti del Terzo Settore risultavano 363.499 con 870.183 dipendenti e 4.661.270 volontari, con un fatturato complessivo di circa 70 miliardi (il 4% del PIL).

I settori principali per dipendenti sono l’assistenza sociale, l’istruzione, la sanità e lo sviluppo economico e coesione sociale, mentre i volontari sono distribuiti su un numero più vasto di settori comprendendo anche le attività culturali, sportive, ricreative, ambientali.

Sono numeri significativi anche se in Europa c’è chi ci supera: ad esempio, l’economia sociale solidale francese, che comprende le cooperative, rappresenta il 10% del PIL e il 14% degli occupati.

Sempre maggiore è pure l’interesse che l’Unione Europea dedica al problema dell’economia sociale: in Europa agiscono 2,8 milioni di enti sociali con 13,6 milioni di occupati che, secondo la Commissione, possono svolgere un ruolo importante nei servizi per la povertà e delle transizioni ecologica e digitale.

Per questo l’Unione Europea, a fine 2022, ha stabilito un Piano d’azione aumentando la dotazione del proprio investimento e proponendosi di affrontare alcuni problemi: la materia fiscale, la difficoltà di ricevere finanziamenti, la questione dei bassi salari, una revisione degli appalti, una guida giuridica da realizzare con l’OCSE.

C’è da segnalare infine che nel 2022 sia l’ONU che l’ILO (l’Ufficio Internazionale del Lavoro) hanno espresso per la prima volta dei documenti sull’economia sociale, che segnano se non altro la presa di coscienza dell’esistenza del problema e della sua importanza crescente.

 

  1. Le attività del Terzo Settore.

Il decreto legislativo 117/2017, Codice del Terzo Settore, ha moltiplicato in modo significativo il campo di intervento del Terzo Settore.

Se la legge relativa alle ONLUS (l. 460/1997) prevedeva per questi enti 11 settori di attività, la nuova legge prevede ben 26 campi di esercizio dell’iniziativa degli enti del Terzo Settore.

Accanto ai tradizionali campi sociali, sanitari e educativi, si aggiungono diversi settori: ambientale, universitario e post-universitario, attività culturali e artistiche, reinserimento nel mercato del lavoro, tutela dei diritti umani, sport dilettantistico, adozioni internazionali, protezione civile.

Queste attività, specificatamente elencate all’art.5, assolvono l’obbligo di rispettare l’interesse generale, come stabilito dalla legge.

La nuova legislazione, se offre maggiori possibilità del passato, costituisce anche una sfida per il Terzo Settore, il quale si trova di fronte a nuovi obblighi e soprattutto a nuovi compiti.

La qualità generalmente riconosciuta alle strutture del settore – di essere nate dal basso, per rispondere a problemi concreti, in un territorio preciso, dunque con un carattere di prossimità immediata alle persone – potrebbe rischiare di trasformarsi in un limite, per via della dimensione modesta e della fragilità delle strutture.

I problemi da affrontare sono spesso di notevole dimensione (per non pensare al contesto, dalla globalizzazione alle transizioni energetiche e digitale) e delle strutture troppo piccole possono dimostrarsi inadeguate a riguardo.

D’altronde dar vita a strutture di maggiori dimensioni comporta il rischio inverso: si è meglio organizzati, ma è facile perdere quel carattere di intervento “personalizzato” che costituisce il pregio del Terzo Settore.

Quelli che sono i valori fondanti del settore, la personalizzazione, il mettersi al servizio dei cittadini, la valorizzazione della coesione sociale, la presenza attiva sul territorio, non possono e non devono essere abbandonati o trascurati per esigenze di efficienza.

Occorre dunque trovare altre strade, che possono essere individuate in aggregazioni, magari temporanee, tra enti e tra filiere di soggetti che con contributi diversi operano per il medesimo progetto.

Molto, naturalmente, dipende dalle disposizioni espresse dalle Amministrazioni Pubbliche.

In Francia, ad esempio, la legge ha previsto per l’assistenza domiciliare che ogni assistito abbia adisposizione un certo numero di ore di assistenza ed è nella sua libertà scegliere l’associazione cui richiedere il servizio: questo consente alle associazioni di organizzarsi e di svolgere l’attività al meglio e con una certa garanzia di continuità.

In Inghilterra si prevede in determinati casi di affidare ad Agenzie non profit il compito dello sviluppo locale, di un’area o di un paese; l’Agenzia può usufruire della collaborazione di associazioni locali e anche in questo caso può lavorare per un tempo congruo.

Anche da noi stanno sorgendo alcune esperienze di associazioni o cooperative di comunità (“concern of community”) che fanno del legame comunitario – ad esempio, di un intero paese – un elemento di stimolo e di forza per la rinascita del luogo; invece di dividersi in varie strutture specializzate dedicate a singoli problemi, si dà vita a un’unica realtà che associa tutte le forze disponibili per affrontare i problemi della comunità.

E’ un esempio che può essere di riferimento anche per le più complesse situazioni cittadine: nel rispetto della specificità di ogni ente ci si potrebbe ritrovare a livello di zona, di area, in una associazione “ombrello” per affrontare insieme problemi di natura più ampia, ad esempio dell’intero quartiere.

Una prospettiva di grande interesse, e soprattutto decisamente nuova, è quella aperta dagli articoli 55 – 56 – 57 del Codice del Terzo Settore che riguardano la co-programmazione e la coprogettazione.

Con la co-programmazione, su iniziativa dell’Amministrazione Pubblica, vengono convocate diverse associazioni per raccogliere idee, proposte, progetti attorno a un determinato problema.

Da questo confronto può derivare una seconda fase di coprogettazione; in base alla validità delle proposte presentate l’Amministrazione può decidere di compartecipare alla realizzazione di un progetto con alcuni degli enti che si sono proposti.

In questo caso si può rinunciare al bando, tenendo però presente che si tratta pur sempre di provvedimenti amministrativi per i quali è richiesta l’evidenza pubblica.

Questa procedura è nuova e le esperienze sono ancora poche (a Milano la delibera sulla co-programmazione è in discussione in questo periodo – giugno 2023 – al Consiglio Comunale), ma, una volta sperimentato e messo a regime, questo sistema potrebbe certamente servire a dare maggiore robustezza e continuità a diversi settori di attività.

E’ da segnalare in proposito l’iniziativa positiva assunta da alcune regioni (Toscana, Umbria, Emilia Romagna) di promuovere leggi per favorire e disciplinare i rapporti tra Pubblica Amministrazione e Terzo Settore, prevedendo anche un fondo finanziario specifico.

Esempi positivi provengono anche dalla gestione di “beni comuni”, particolarmente di strutture abbandonate (palazzi, ex-fabbriche, ex-caserme, ecc.) che, una volta recuperate, possono costituire sedi di molteplici attività; spesso la loro ampiezza favorisce l’uso da parte di una pluralità di enti (in Italia risultano presenti 750.000 immobili in stato di abbandono).

In proposito è bene ricordare la benemerita attività di Labsus (Laboratorio di sussidiarietà) che da tempo ha proposto e stimolato l’adozione da parte dei Comuni di regolamenti per la partecipazione dei cittadini che hanno spesso promosso positive pratiche di collaborazione.

Un discorso analogo dovrebbe essere rivolto alle Fondazioni di origine bancaria (FOB) e alle Fondazioni di Comunità che ne sono derivate: diversi bandi emessi da questi istituti hanno una durata limitata e riguardano progetti singoli, a titolo spesso esemplare, quando invece la maggior parte dei problemi sono permanenti e di notevole spessore.

Infine, non va dimenticato che, nella ricerca di un rafforzamento delle strutture del Terzo Settore, sono possibili collaborazioni anche con imprese profit, il cui sostegno potrebbe consentire iniziative di maggiori dimensioni.

 

  1. I problemi e le difficoltà.

Se il Terzo Settore è spesso lodato per la sua generosità e il suo impegno in aree di particolare bisogno – mettendo in luce in questo modo i suoi aspetti positivi – non si deve pensare con questo che manchino problemi e difficoltà.

Il problema primo è certamente quello degli appalti e dei bandi; molti enti vivono sulla base di risorse ottenute con la partecipazione a bandi: innanzitutto bisogna vincere il bando, e per questo occorre contenere i costi, e il servizio ottenuto in caso di successo dura magari un anno o due per poi dover partecipare nuovamente ad un altro bando.

Gli appalti spesso poi sono molto frazionati – per rendere chiaro ciò che si mette a bando – ma questo impoverisce ancora di più gli enti del Terzo Settore, i quali spesso comprimono le spese generali per dare spazio ai progetti, trasformandosi in “progettifici”.

Questo sistema di indebolimento generale del settore è stato definito “starvation cycle”, ciclo della fame e della miseria, ciò che esprime chiaramente la sua negatività.

Infine, è spesso il settore pubblico a usare le gare al ribasso allo scopo di risparmiare sul costo dei propri servizi, ma in questo modo evidentemente il Terzo Settore non può crescere e i salari sono tenuti costantemente bassi.

Poiché i bandi provengono dalla Amministrazione Pubblica, le pratiche per poter partecipare e successivamente – in caso di assegnazione del servizio – per rendicontare l’attività, sono spesso numerose e complicate.

(Ancora più complesse sono le regole e la rendicontazione per i bandi europei, per i quali si richiedono veri e propri specialisti).

Con l’avvento dell’era digitale si è moltiplicata per molti cittadini la difficoltà di usufruire dei servizi pubblici e a volte di benefici, in quanto ignari dei propri diritti, ma soprattutto incapaci di accedervi.

E’ un problema che il Terzo Settore, lavorando con persone bisognose, incontra frequentemente: connettersi allo SPID, indirizzare una domanda all’Ente giusto, conoscere i benefici a cui si ha diritto, anche solo presentarsi a uno sportello, rappresentano per molti cittadini un ostacolo che impedisce loro di usufruire pienamente dei propri diritti.

L’azione del Terzo Settore svolge una funzione di collante tra istituzioni e cittadini bisognosi, accompagnando e sostenendo questi ultimi, per sviluppare le loro capacità ad usare al meglio le risorse e i servizi disponibili; come ricorda giustamente Amartya Sen, non basta avere dei diritti, occorre avere anche la capacità di usarli. Le Amministrazioni spesso si occupano della prima parte e tocca poi al Terzo Settore occuparsi della seconda.

Un problema serio del Terzo Settore è la difficoltà di offrire ai propri collaboratori prospettive di avanzamento professionale, economico e di carriera, perché in genere si tratta di strutture relativamente di modesta dimensione e ciò contrasta in modo palese con il livello molto qualificato dei lavoratori presenti (da un’indagine Excelsior-Camere di Commercio risulterebbe che il 34,7% del personale è costituito da laureati).

Quello della relativa debolezza economica di molti enti apre subito un’altra questione, quella del loro finanziamento.

A volte le loro attività sono gratuite o semi-gratuite, quando sono economiche si rivolgono a strati popolari dai mezzi limitati, la capitalizzazione è molto modesta e gli investimenti ristagnano.

Le Fondazioni Bancarie e anche le Fondazioni private (riunite in Assifero) svolgono un’indubbia azione benefica di sostegno e inoltre la legge prevede strumenti finanziari specifici, ma i fondi messi a disposizione sono limitati. Le Banche sono autorizzate a emettere “titoli di solidarietà” per il Terzo Settore; si tratta di obbligazioni, il cui capitale va rimborsato, sia pure a condizioni di favore. A livello internazionale si parla di Finanza di Impatto ma, trattandosi di strumenti finanziari, la dimensione sociale rischia di passare in secondo piano.

In ogni caso sarebbero necessarie risorse più stabili.

Vi sono però altre soluzioni che andrebbero esplorate: l’eventuale compartecipazione da parte di aziende e la possibilità di avvalersi del welfare aziendale, da cui potrebbe venire un contributo significativo

In entrambi i casi non si tratta di chiedere aiuti di beneficienza una tantum, ma di realizzare vere forme di partecipazioni pluriennali e nel caso del welfare di costruire uno stretto rapporto permanente per lo sviluppo congiunto di entrambi.

 

  1. Verso la realizzazione di un’economia sociale.

Già oggi il Terzo Settore svolge un importante ruolo economico e sociale a sostegno dei cittadini, per lo sviluppo della coesione sociale e a favore della comunità del territ

 

E il Terzo Settore non si trova forse oggi di fronte alla necessità di dare una risposta a questi problemi?

 

orio.

La nuova legge del 2017 ha introdotto delle novità di rilievo e soprattutto ha offerto nuove possibilità di allargamento e di sviluppo dell’esperienza.

Su queste prospettive è impegnato l’intero Terzo Settore e particolarmente lo sono le reti di rappresentanza, di coordinamento e di studio presenti nel settore, dal Forum del Terzo Settore (organismo rappresentativo) a Labsus, Aiccon, Terzjus, Cantiere del Terzo Settore, Acli, CGM, Impresa Sociale, Secondo Welfare per citare solo le principali.

Ma in proposito è opportuno fare una distinzione tra un miglioramento e un progresso dell’attuale situazione (allargando l’ampiezza degli enti, realizzando forme di cooperazione e filiere tra enti diversi, rafforzando la solidità finanziaria, ecc.) e invece una prospettiva e un orizzonte ben più ambiziosi che a volte vengono evocati, ma che meriterebbero maggiore attenzione e riflessione.

E’ possibile fare del Terzo Settore la base di un’economia sociale che costituisca un reale terzo pilastro dell’economia accanto al settore privato e al settore pubblico?

Con “economia sociale” ci si riferisce a un settore rilevante, paragonabile agli altri due, autonomo, ma cooperante sia col privato che col pubblico, in grado di garantire una presenza diversa capace di influenzare l’intera economia e la società.

Non, dunque, un’esperienza marginale per quanto bella ed esemplare, ma una realtà determinante dell’assetto sociale del paese.

Del resto, i problemi che oggi abbiamo di fronte sono di una dimensione straordinaria: globalizzazione, migrazioni, diseguaglianza crescente, povertà e precarietà diffuse, clima, transizione energetica e digitale, rinascita di nazionalismi e populismi.

Non si può pensare che l’impegno del Terzo Settore si riduca a qualche attività sociale e rinunci ad affrontare quelli che sono i problemi dell’umanità in questo momento.

Se questi sono i problemi, occorre misurarsi con questi: non c’è alternativa, perché non si può fuggire dalle proprie responsabilità.

E’ indubbio che ci sia molta strada da fare per mettersi nelle condizioni di essere all’altezza di questo confronto e perciò è importante avere chiaro l’orizzonte per cui lavorare: la realizzazione di un grande settore di economia sociale costituisce l’obiettivo e lo strumento per realizzare questo scopo.

Se allarghiamo un momento la nostra visione a livello internazionale, appare chiaro che il sistema economico attuale non sarà mai in grado di diffondersi e realizzarsi sull’intero pianeta.

Pensiamo forse che la popolazione africana che oggi si aggira attorno a 1,5 miliardi, destinata a raddoppiarsi in 30 anni, possa godere di un lavoro a tempo pieno e indeterminat

o come noi pensiamo essere giusto nei nostri paesi europei?

Anche nella più evoluta India la quota di popolazione dotata di un contratto regolare di lavoro si aggira attorno al 10%. Un bravo economista indiano, Kalyan Sanyal, ha scritto in proposito un libro (Rethinking capitalist development) per sostenere che il capitalismo non riuscirà mai a coprire l’intera economia e che accanto all’economia capitalistica è bene sostenere un’altra economia fatta da tante realtà diverse: lavoro personale o artigianale, di comunità, di villaggio, di sussistenza (il lavoro più diffuso nel mondo), le quali offrono possibilità di lavoro e di vita a centinaia di milioni di persone.

L’economia non capitalistica che ha in mente Sanyal è evidentemente diversa da quella non profit che si sviluppa da noi: quella è un’economia tradizionale e comunitaria oppure “esistenziale” (ci si inventa lavori per vivere), la nostra è nata più idealmente per dare risposta ai bisogni inascoltati e per sviluppare un impegno sociale, cioè con motivazioni solidaristiche e mutualistiche.

Ma le due si possono incontrare: l’una trae i suoi rapporti sociali e solidaristici dalla tradizione e dalla comunità di villaggio, l’altra intende sviluppare socialità e solidarietà, coesione sociale, in una società che ne è sempre più priva.

D’altronde se il mondo dei paesi in via di sviluppo ha sempre sperimentato una vita povera e precaria, è altrettanto vero che i paesi più ricchi, tra cui l’Italia, stanno attraversando una fase critica dove vanno diffondendosi precarietà e povertà.

E’ evidente che per affrontare questo ordine di cose, si richiedono strumenti e risorse adeguate per poter lavorare all’altezza di una situazione difficile che rischia di travolgere tante persone, paesi, strutture.

Se è bene avere presente l’orizzonte per muoversi nella giusta direzione, in concreto occorre poi lavorare umilmente per cogliere ogni possibilità di sviluppo.

In proposito vale la pena di richiamare (oltre alle diverse indicazioni già citate in precedenza) due possibilità da cui attingere dei contributi significativi.

Tempo fa due autori americani, Michael Porter e Mark Kramer, hanno scritto un articolo importante “Creare valore condiviso”, che ha conosciuto un meritato successo.

I due economisti hanno messo in luce come in molti casi sia possibile per l’impresa avere degli obiettivi che sono nello stesso tempo validi economicamente e socialmente: le aziende facendo il loro mestiere e ricercando il profitto, possono produrre effetti benefici per altri e per il territorio (ciò che spesso ritorna di vantaggio alla stessa impresa, se non altro in termini di reputazione).

Si può e si deve pensare a imprese diverse non chiuse in sé stesse, ma aperte al confronto con la società. Molte aziende lo facevano nel tempo passato in modo paternalistico; non è possibile farlo oggi in modo democratico?

E il Terzo Settore non potrebbe avere un ruolo di influenza nei confronti delle imprese realizzando forme di cooperazione, unendo le energie e realizzando progetti innovativi?

L’altra prospettiva che si presenta di grande interesse è realizzare una convenzione tra Terzo Settore e Welfare aziendale.

Lo Welfare aziendale attualmente in atto prevede in genere che, tramite il contratto nazionale, vengano attribuite delle cifre ad ogni lavoratore, una parte delle quali generalmente destinata agli enti bilaterali (soprattutto per la salute), mentre un’altra parte viene lasciata alla disponibilità del singolo.

Su questa parte, in mancanza di un’iniziativa sindacale, si sono attivate le organizzazioni imprenditoriali d’accordo con piattaforme private, tra cui spicca Amazon.

Si tratta di risorse considerevoli, tanto più apprezzabili data la debolezza finanziaria di tanta parte del Terzo Settore.

Si potrebbe pensare di dedicare una parte di queste risorse a finalità sociali, con un ruolo attivo del Terzo Settore e con evidenti benefici a livello collettivo (in questo senso opera, ad esempio, WelfareX promosso da CGM, per l’uso di piattaforme che valorizzino il Terzo Settore).

Per fare un esempio, con un vasto numero di adesioni, da ottenere con l’apporto di diversi welfare contrattuali e aziendali a livello di una provincia e con un modesto contributo di 200/300 euro annuo a persona, si potrebbe dar vita a un fondo mutualistico per la non autosufficienza; in caso di necessità di ricovero il Fondo potrebbe garantire la copertura della maggior parte della spesa, che si presenta elevata e fuori dalla portata della maggior parte delle famiglie (nell’area milanese il costo mensile a carico del privato è almeno di 2.500 euro).

E’ solo un esempio del genere di iniziative di rilevante valore sociale che si potrebbero realizzare.

Evidentemente proposte di questa natura richiedono un salto di qualità nella coscienza sociale, la quale purtroppo nel tempo si è andata affievolendo.

Ma in questo, appunto, sta la grande battaglia del Terzo Settore – non certo limitarsi a dar vita a numerose buone iniziative – ma riuscire a modificare una mentalità eccessivamente individualistica per promuovere una cultura sociale a favore di una migliore convivenza per tutti.

Il Terzo Settore è un fattore di interconnessione tra istituzioni, tra pubblico e privato, tra cittadini e amministrazioni; questa sua forza reale che parte dal basso, dalla vita quotidiana, dalle radici, non può non porsi obiettivi ambiziosi: innanzitutto quello di realizzare un cambiamento sociale concreto, espressione delle sue finalità e ai suoi ideali.

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