I conflitti: dal globale al locale, e viceversa

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Uno studio nelle banlieus di Parigi e alcune conclusioni su come le radici dei conflitti spesso non solo non trovano fondamento nelle religioni, ma, anzi, su confronto e sulla conoscenza puntano per cercare di risolverli.

 

Di Pier Paolo Piscopo

La natura dei conflitti odierni, soprattutto quando sono religiosi, è la loro globalizzazione. Avendo avuto modo di studiarli per una ricerca condotta sulle banlieues di Parigi, ho potuto avere l’immagine di un’era che apparentemente sembra sfuggire alle nostre capacità attuali di comprensione e azione.

Quello che si rispecchia nel globale ha una tendenza solitamente rintracciabile nel locale. La particolarità, però, che ho avuto modo di notare è che una maggioranza positiva o negativa locale controlla il globale, ma non è vero il contrario. Mi spiego. Se un fenomeno locale ha una connotazione sociale positiva, anche se il resto dell’andamento mondiale ha una valenza negativa quest’ultima non influenzerà il positivo locale come invece avviene in senso contrario. In sintesi: una azione positiva nel locale ha più valenza sul globale piuttosto che un’azione negativa globale nel locale, così modificando con delle azioni il locale si ha un maggiore controllo.

Ogni conflitto è diverso certo, ma spesso le religioni hanno un ruolo fondamentale in queste dinamiche. Oggi il conflitto è stato spostato dal piano politico a quello religioso in maniera assolutamente strumentale.

I gruppi di interesse alle guerre, diffondono la religione come regola di condotta per la vita delle comunità, andando a discapito di altre comunità di minoranza e religiosa presenti in un Paese.

Ciò ha forti ripercussioni sulle popolazioni, divenendo molto complicato per gli attori internazionali intervenire; perché quando si aggiunge un’azione esterna ad un conflitto già in atto, interno in un Paese, questo spesso viene all’occasione utilizzato con il desiderio di scatenare una guerra globale dai gruppi terroristici: la situazione allora diverrebbe completamente fuori controllo se si dovesse allargare all’interno di tutti i Paesi del pianeta.

È in questo contesto che i leader religiosi musulmani, cristiani e protestanti concordano su una campagna di sensibilizzazione nazionale, che miri essenzialmente ad aiutare le persone a capire la natura dei conflitti e a non confondere il livello politico con quello religioso, ovvero evitando di strumentalizzare la religione, ma cercando piuttosto di invitare le persone alla calma e facendole riflettere sui valori fondanti che uniscono i popoli. Il dialogo tra le religioni è il miglior modo possibile per evitare una guerra mondiale religiosa, perché questa si connoterebbe di tratti messianici, divini non più solo umani o politici. Il confronto e l’apertura all’altro sono l’unica vera arma che abbiamo per mettere fine alle guerre. Dobbiamo percepire la religione come un valore sociale e culturale, non di antagonismo ma di co-protagonismo.

Oggi si ha paura invece che l’Islam, in questa “vecchia” Europa, di tradizioni e radici giudaico-cristiane, travalichi quest’atto di recupero e che i ragazzi che non si è riusciti ad integrare in specifici contesti, come quelli di banlieue e lontani da quello parentale (per molti versi e motivi che specifico nel libro Banlieue. Tra emarginazione e integrazione per una nuova identità, il Formichiere, 2018) possano trovare rifugio in un’identità astratta e facinorosa, terrorista che non ha più nulla di religioso, ma è in preda a credere che tutto quello che può tornare utile ai loro capi politici sia voluto da Dio.18

Di pari passo consentire alla religione quel compito di integrazione e di mediazione di gruppi differenti e assurgere questa come interlocutore dello Stato, fa sorgere la domanda se non faccia emergere il pericolo di creare uno Stato nello Stato, con leggi e cittadini propri e l’ingerenza di un “corpo estraneo”. L’immigrazione e il contesto euro-occidentale potrebbero allora essere l’occasione per ripensare l’Islam, attualizzare e ri-contestualizzare l’interpretazione che si è data del Corano nei secoli, per portarlo ad una propria “rivisitazione” e “ri-lettura”, che è nello specifico del termine religione, dal latino re-lègere (scegliere, figurativamente osservare con attenzione).

Nel libro citato, essendomi trasferito fisicamente in loco ad abitare nelle banlieues per molto tempo, ho cercato d’indagare il rapporto che c’è dove il conflitto religioso si è più evidenziato tra dichiarati musulmani e cristiani. Quello che ne ho potuto ricavare è stato il contrario di ciò che mi aspettassi. Preti, operai e immigrati hanno lavorato fianco a fianco, rientrando negli stessi quartieri, abitando le stesse case per più di quarant’anni e il carattere sistemico che rappresenta l’Islam è conosciuto bene dalla Chiesa.

Penso perciò che una cultura ‘dogmaticamente’ laicista, che respinge il divino nel mondo delle sottoculture o lo retrocede a grado inferiore di sviluppo, sarà innanzitutto impossibilitata a capire molte culture e in seconda analisi sarà incapace di inserirsi nel dialogo tra le stesse, chiave fondamentale per la sopravvivenza nel futuro.

 

Il testo è reperibile on-line direttamente alla casa editrice http://www.dalformichiere.it

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