Un no pacato e convinto

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Voterò no al referendum di domenica. Non che a qualcuno debba per forza interessare la mia scelta personale, ma visto che gli amici di questo sito hanno lanciato una sorta di sondaggio e molte autorevoli voci si stanno esprimendo, aggiungo la mia modesta opinione all’elenco.

Sono due gli argomenti che mi hanno convinto in questo senso. Il primo è di merito. La riforma mi pare modesta e pasticciata. L’avevo notato su questo sito già a suo tempo. Il superamento del bicameralismo perfetto poteva essere un argomento piuttosto condiviso e quindi indolore, ma il modo con cui è stato condotto rasenta l’impossibilità a funzionare. Per andare maldestramente e demagogicamente dietro all’onda dell’opinione pubblica sui risparmi nei costi della politica, ci si è inventati una forma di Senato dimezzato, che non è né un organismo democraticamente legittimato, né un vero rappresentante delle autonomie, ma un ibrido politico. Il doppio lavoro di consiglieri regionali e sindaci è incompatibile per gli stretti tempi decisionali che la costituzione prevede per il nuovo operare del Senato. In più, la presunta semplificazione del meccanismo legislativo è tutta da dimostrare, con il rischio di conflitto su materie incertamente distinte tra le due camere. Ancora, la scelta per la ricentralizzazione del nuovo titolo V taglia la testa al toro dei problemi nati dopo la – altrettanto affrettata – riforma del 2001. Mentre la questione dei conflitti sarebbe stata piuttosto da dipanare senza ridurre lo spazio dell’autonomia regionale, visto che molte volte le tensioni derivano da una impropria o cattiva legislazione nazionale. L’abolizione del Cnel toglie di mezzo un ente di scarsa rilevanza, ma con esso anche lo spazio potenziale per gestire un problema (quello del dialogo con le rappresentanze sociali ed economiche), che non scompare negandone l’esistenza in nome di una disintermediazione decisionista. Poco servono a riequilibrare queste problematicità le correzioni positive di norme sulla partecipazione (referendum, leggi di iniziativa popolare), o anche l’opportuno innalzamento del quorum per l’elezione del presidente della Repubblica.

Il secondo e forse ancora più importante argomento è di metodo: una riforma della costituzione effettuata a colpi di maggioranza di governo è divisiva e lacerante (al di là della sostanza), mentre la costituzione dovrebbe unire i cittadini (la “casa comune” del 1948 ha retto a prove durissime; perché ora venir meno a quel modello di riconoscimento reciproco?). L’errore in questo senso è all’inizio del percorso: il mandato riformatore conferito da Napolitano al governo. Renzi ha cercato di gestirlo con una riforma circoscritta e un accordo con una parte dell’opposizione. Ma venuto meno questo accordo (per ragioni che qui non mette conto approfondire), si è fatto ingolosire nella sua logica di leader che coglie ogni occasione e si costruisce il nemico per affermarsi. E ha deciso di usare la riforma della costituzione per legittimarsi ulteriormente come il leader “che fa”, contrapposto all’immobilismo del passato. Retorica inaccettabile, quella del cambiamento per il cambiamento. E retorica molto pericolosa quella del governo in carica che si fa la sua costituzione: aspettiamoci pericoli, nelle prossime legislature. La spaccatura verticale di gruppi, partiti, associazioni, financo famiglie, di questi giorni è già un segnale preoccupante.

Detto questo, come ritengo risibili gli argomenti del “si” basati sulla necessità di svecchiare il paese, o quelli basati sul ricatto del “dopo” (la speculazione internazionale o le minacce economiche collegate all’instabilità), ritengo anche ampiamente sproporzionata una parte della campagna elettorale del “no”. Non siamo di fronte a minacce per la democrazia, anche se la logica dell’iniziativa riformatrice è quella di dare un piccolo ulteriore colpo nella direzione della verticalizzazione delle istituzioni. Percorso iniziato ben prima di Renzi e ad opera di maggioranze variegate, spesso senza toccare la costituzione (con leggi ordinarie come quella elettorale, o con regolamenti parlamentari).

Risibile anche l’argomento dei “compagni di strada”: come se nel sì non ci siano parecchi volti poco raccomandabili! Certo, a tutti dovrebbe venire in mente che, uscendo dalle contrapposizioni urlate e sguaiate di questi giorni, chiunque vinca il 4 dicembre, la questione non si può dire chiusa. Il no non è necessariamente un voto per l’immobilismo, ma può diventare uno stimolo per riforme più equilibrate e condivise. Il sì – almeno speriamo – non è necessariamente un voto per chiudere la partita del cambiamento congelando limiti e contraddizioni dell’attuale riforma. Chissà che, passato lo scontro, si possa tornare a ragionare sulla complessità e a costruire un soprassalto di intesa per un cambiamento più sobrio. Per sistemare il bicameralismo – tanto per dire – basterebbe riesumare una proposta di Leopoldo Elia dei primi anni ’90 che modificando un solo articolo correggeva le più grosse storture.

 

Guido Formigoni

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  1. Mi dispiace!

  2. È strano, caro Guido: Allegretti e Balboni fanno leva sul richiamo di Moro al “dovere del realismo”, come ricostruito nella tua bella biografia, per motivare il loro sofferto Sì, mentre proprio tu sembri ignorare questo richiamo. Lo fai nel giudizio sommario su un testo che non merita tanta severità e che peraltro è frutto, nel bene e nel male, non del diktat di un uomo solo al comando, ma di una faticosa mediazione politica e parlamentare con ‘queste’ forze politiche e non con quelle (anch’esse peraltro sovente idealizzate) della cd prima repubblica. Per non dire della lettura del giorno dopo: come non cogliere la portata strategica, per il futuro dell’Italia e tocca dire anche dell’Europa, di una eventuale sconfitta del riformismo, che dall’Ulivo ci ha condotto fino al Pd, come ha ricordato in modo non meno sofferto Romano Prodi, sotto i colpi convergenti dei populismi e dei radicalismi di tutte le osservanze? La cultura dei C3dem, per come l’ho sempre capita, è la cultura della mediazione, quella che ci aiuta a valorizzare tutte le potenzialità di futuro anche nelle situazioni più opache e controverse. Tutto il contrario del rifugiarsi solitario nel Fiat crux et pereat mundus.

  3. Come Guido voterò no domenica prossima. Con altrettanta pacatezza e convinzione. Sapendo di essere in dissenso rispetto alla posizione ufficiale del partito al quale appartengo e per il quale sono stato eletto a livello locale (2010-2015).

    Abbiamo vissuto una campagna segnata da un peccato originale: una personalizzazione inutile, dannosa, controproducente; “un dibattito che ha, fin dall’inizio, abbandonato il tema fondamentale, ossia una modesta riforma costituzionale, per trasformarsi in una sfida pro o contro il governo”. Mentre “era chiaro che se si voleva chiedere una decisione sul contenuto della riforma costituzionale lo si sarebbe dovuto separare, come saggiamente da alcuni proposto fin dall’inizio dell’estate, dalla sorte del governo.”
    Una campagna segnata da un palese tentativo di gran parte dei poteri forti, internazionali e nazionali, finanziari ed economici, di condizionarne l’esito tramite la diffusione pervasiva di paure irrazionali. Insomma, “una rissa che ha trasmesso in Italia ed all’estero un senso di debolezza che, qualsiasi sarà il risultato di questo referendum, si trasformerà in un periodo (speriamo non troppo lungo) di inutile e dannosa turbolenza.”

    Arriviamo al voto in una situazione talmente caotica che, anche chi, nel recente passato, ha avuto un ruolo significativo per la crescita democratica, sociale ed economica di questo Paese, ha finito per arrendersi a considerarla una scelta tra “succhiare un osso o un bastone”. Scambiando, per di più, l’osso con il bastone!
    E quando il caos diviene il dominus incontrastato e l’irrazionalità porta a scambiare “lucciole per lanterne” mi pare necessario andare alla ricerca di punti fermi, dei fondamentali. E se parliamo di Costituzione repubblicana, Giuseppe Dossetti è sicuramente un riferimento imprescindibile.

    Nella lettera ai Comitati per la difesa della Costituzione del 23 maggio 1994, Dossetti scriveva: “Ora la mia preoccupazione fondamentale è che si addivenga a referendum, abilmente manipolati, con più proposte congiunte, alcune accettabili e altre del tutto inaccettabili, e che la gente … finisca col dare un voto favorevole complessivo sull’onda del consenso indiscriminato a un grande seduttore: il che appunto trasformerebbe un mezzo di cosiddetta democrazia diretta in un mezzo emotivo e irresponsabile di plebiscito”. Dopo 22 anni, l’attualità di queste preoccupazioni è tale da non richiedere commenti.
    Condivido che, nel merito, la riforma si presenti modesta e pasticciata. Supera il bicameralismo paritario creando un Senato-chimera, dopolavoro per consiglieri regionali e sindaci. E chi ha avuto qualche modesta esperienza di incarichi amministrativi ben sa che ne i primi ne, tantomeno, i secondi potranno dedicare il tempo necessario a ragionare, proporre, mediare: voteranno come il partito di provenienza richiederà loro, non come il territorio dal quale provengono necessita.

    Non sono tra i pochi irriducibili che considerano le modifiche introdotte tutte positive o tutte negative. Ma è mio personale convincimento che, nel merito, le seconde prevalgano largamente sulle prime.

    Certo un risultato questa riforma lo raggiungerà: spaccherà il Paese in due. Mentre, come ha recentemente ricordato Giovanni Nicolini “I padri costituenti parlavano di “Casa comune”. La costituzione del ‘48 fu scritta insieme e fu votata a larghissima maggioranza, 88%, da quanti erano avversari politici. La riforma di oggi invece divide gli italiani: se prevalesse il sì, metà degli italiani non si riconoscerebbero nel nuovo testo della Costituzione”.

  4. Aggiungo la mia condivisione a questi motivi, ben illustrati. Voterò NO, convintamente, e lo faccio in sintonia con gli insegnamenti ricevuti dalla storia cattolico democratica, popolare, e sociale (ciò non significa che altri esprimano una valutazione diversa basandosi sugli stessi argomenti). E spero, anzi ritengo indispensabile, che dal 5 dicembre – proprio perchè avremo un Paese spaccato in due parti pressochè uguali – si riprenda il discorso per correggere quanto di semplicistico e pasticciato la Riforma prevede (nel caso prevaga l’assenso) oppure per modificare “bene” e con equilibrio (nel caso di vittoria del NO). E questo lavoro lo deve fare soprattutto chi appartiene a questa area e cultura politica, che non si è schierata da una parte sola, ma che ha la sensibilità per riscrivere ciò che serve in un clima più unitario e parecipativo di ogni tendenza

  5. Condivido Formigoni, e i commenti di Airoldi – con la sua appropriata citazione di Dossetti – e di Baviera.
    Non condivido Tonini e mi dispiace, finora lo avevo sempre tenuto tra i miei punti di riferimento,

    Io non voglio che la situazione italiana cambi, voglio che migliori.
    Non voglio leggi varate rapidamente, voglio leggi buone, anche se a costo di procedure più laboriose.
    I costi della politica? La politica costa, ed è giusto così. Si tratta di individuare quali sono i costi funzionali alla democrazia e quali no,
    La democrazia costa: perché implica processi laboriosi, confronti, talora contrapposizioni, ricerche di intesa anche difficili.

    Cambiare per cambiare è la parola d’ordine della società dei consumi. Così come rottamare, che va bene per i telefonini e le automobili. Non per le persone.

    Voglio ascoltare persone che mi fanno pensare, non uomini di spettacolo che parlano alla “pancia”.

    Devo confessare che a dubitare del SI e a spingermi a studiare la riforma (con l’ausilio dei documenti predisposti dal Servizio Studi della Camera) sono stati principalmente quanti hanno sostenuto il SI con interventi spesso approssimativi, gravemente incompleti, quando non ambigui.

    Un sostenitore del SI ha affermato che i padri costituenti del ’46 erano VITTIME DEL “COMPLESSO DEL TIRANNO”: è stata la definitiva conferma dei miei timori: avvertiamo sempre meno l’esigenza di ancorare saldamente la democrazia al popolo, e ci sono rischi di involuzione autoritaria.

    Per questo, pur essendo del PD, ho votato NO.

  6. anch’io, come l’ultimo intervento che leggo, ho preferito attendere il 5 per intervenire
    a bocce ferme, come si dice
    ma con la speranza che tutti vogliano rimettere subito il pallino in campo
    spero riprendano a circolare subito contributi di proposta su come andare avanti, come modificare costituzione e leggi, come costruire nuove maggioranze di governo
    non per aggregare maggioranze, ma per trovare soluzioni
    una fase costituente, insomma
    temo che invece continui la faida: fino al prossimo congresso pd, fino alla prossima campagna elettorale
    è difficile avviare una fase di studio, magari un convegno dove ci sia tempo e modo di confrontare tesi e proposte e fare cultura politica, anzichè scontro

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