Temo che il nuovo senato non sia in grado di operare in modo valido

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento sul prossimo referendum, in favore del No. L’autore, da oltre quarant’anni nel Meic in Sicilia, di professione bancario, iscritto al Pd, è da poco tempo tra gli amici di c3dem. (Il titolo è redazionale)

 

Il dibattito sul tema della riforma costituzionale, in corso nel paese in vista del prossimo appuntamento referendario, ha acquisito le connotazioni di un acceso confronto tra le forze politiche, scandito da esternazioni pubbliche, consistenti generalmente in slogan e affermazioni “ad effetto”, idonee più a “cavalcare” gli umori dell’opinione pubblica, che a fornire elementi per un equilibrato discernimento personale.

Spostando, però, il confronto sul piano delle logiche e delle strategie politiche, si rischia di distogliere l’attenzione da quello che conta realmente: il contenuto della riforma. la Costituzione è l’insieme delle regole condivise, su cui si fonda la nostra convivenza, e in questo senso essa svolge un ruolo di legame duraturo e intergenerazionale, che va al di là delle dinamiche e delle contingenze di questa legislatura.

Occorre, d’altra parte, riconoscere che pervenire ad un giudizio appropriato non è facile: si tratta infatti di esprimere una valutazione di merito unitaria e drastica (SI/NO) di un testo, che modifica ben 47 articoli della Costituzione e 3 leggi costituzionali, e inoltre detta altre norme che non vanno a modificare la Costituzione ma si affiancano ad essa; ad un esame analitico, è facilmente immaginabile che alcune modifiche potranno apparire inaccettabili, e altre, invece, opportune, ovvero criticabili, ma non tanto da giustificare la bocciatura di un processo elaborativo complesso, che ha una sua storia ed ha comunque impegnato intelligenze e professionalità.

Questo mio contributo alla discussione è un tentativo di pervenire ad un giudizio di sintesi, fondato sull’esame del testo di legge costituzionale e condotto principalmente con l’ausilio dei supporti all’uopo predisposti dal Servizio Studi della Camera dei deputati. Ho tenuto conto, tra le tante modifiche proposte, solo di quelle che mi sono sembrate più rilevanti per la formulazione di un giudizio sintetico. Qui di seguito espongo le mie valutazioni conclusive.

 

Regioni, Province, Comuni

In ordine alla revisione del titolo V della Parte II della Costituzione (“Le Regioni, le Province, i Comuni”), queste mi sembrano le osservazioni e le valutazioni più significative:

  1. la soppressione delle Province non è affiancata da norme, che affrontino adeguatamente i problemi generati dall’eliminazione di un livello organizzativo intermedio tra quello del Comune e quello della Regione, livello di cui non sfugge la permanente opportunità (il nuovo istituto dell’ “ente di area vasta” occupa uno spazio minimale nel testo di legge costituzionale, così come le “associazioni di Comuni”);
  2. la riformulazione dell’art. 117, con l’ampliamento o la ridefinizione delle materie di competenza esclusiva statale e – elemento nuovo – la previsione di materie esplicitamente assegnate alla competenza delle Regioni, porrà prevedibilmente nuovi problemi interpretativi e, di conseguenza, non servirà a ridurre la conflittualità tra Stato e Regioni, che negli anni scorsi ha alimentato un ampio contenzioso davanti alla Corte Costituzionale. Non servirà a ridurre la conflittualità neanche l’eliminazione della “competenza concorrente” prevista dalla Costituzione vigente (materie assegnate alla potestà legislativa delle Regioni, salvo che per la determinazione dei “principi fondamentali”, riservata alla legislazione dello Stato): infatti, per non poche materie il nuovo testo attribuisce allo Stato una “competenza esclusiva” sostanzialmente “attenuata”, perché in realtà circoscritta ad ambiti determinati (“disposizioni generali e comuni”, “disposizioni di principio”, “norme […] tese ad assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale”, “profili ordinamentali generali”), ambiti oltre i quali subentra la competenza delle Regioni. Questa “convivenza” delle due competenze porrà inevitabilmente nuovi problemi di tipo definitorio. Le materie affidate a questa “competenza esclusiva attenuata” sono peraltro molto rilevanti: tutela della salute, politiche sociali e sicurezza alimentare; istruzione; istruzione e formazione professionale; attività culturali e turismo; governo del territorio; procedimento amministrativo e disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione.

 

Le criticità rilevate, tuttavia, non mi sembrano tali da motivare un radicale NO alla riforma, in quanto le modifiche proposte sono comunque il frutto di una lunga, articolata riflessione e di equilibri faticosamente raggiunti; nel caso in cui in futuro dovessero emergere problematicità rilevanti, nulla vieta che si possano effettuare degli aggiustamenti (la riforma costituzionale in esame è per certi aspetti una correzione di quella del 2001).

 

Bicameralismo differenziato

In ordine all’introduzione del “bicameralismo differenziato” e alla configurazione del nuovo Senato, dall’analisi del dibattito sulle riforme della Costituzione, svoltosi dall’inizio degli anni ’80 ad oggi, emerge che «l’esigenza di superare il bicameralismo paritario, individuando nel Senato una istanza di rappresentanza territoriale», ha costituito «uno degli elementi di convergenza e di continuità, sia pure nell’ambito di soluzioni diverse» prospettate nei vari progetti di riforma (cfr. Servizio Studi della Camera dei deputati, Schede di lettura, p. 10). Da ultimo, la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali istituita nel 2013, ha registrato al proprio interno «un orientamento prevalente in favore dell’introduzione di una forma di bicameralismo differenziato rispetto ad un sistema monocamerale»; l’obiettivo prospettato è stato quello di «garantire al governo nazionale una maggioranza politica certa, maggiore rapidità nelle decisioni e dunque stabilità, nonché […] di portare a compimento il processo di costruzione di un sistema autonomistico compiuto, con una Camera che sia espressione delle autonomie territoriali» (Schede di lettura cit., p. 11).

L’obiettivo sopra enunciato potrebbe, per certi aspetti, suscitare timori in chi, come me, valuta criticamente l’attuale tendenza a preferire la rapidità dei processi alla qualità dei risultati. In particolare, l’evoluzione della normativa elettorale di questi anni più recenti esprime una crescente, inquietante disponibilità a sacrificare il valore della rappresentatività democratica per il raggiungimento dell’obiettivo della governabilità (riduzione/eliminazione delle preferenze; premi di maggioranza e altre formule suscettibili di disallineare maggioranza nel Parlamento e maggioranza nel paese).

Tenuto conto di questi profili di rischio, quella del bicameralismo differenziato – così come è articolata nel testo di legge costituzionale in esame – mi appare una scelta condivisibile: la presenza di due Camere costituirà una garanzia che le determinazioni e le scelte del Parlamento potranno essere soggette ad adeguata ponderazione; la scelta del monocameralismo, invece, ci avrebbe esposto di certo a rischi molto elevati di decisioni affrettate e di colpi di mano.

Tuttavia, rilevanti sono le criticità che ho ritenuto di individuare:

  1. convengo, in linea di massima, sulla scelta del bicameralismo differenziato proposta dalla riforma – con l’attribuzione della rappresentanza della Nazione alla Camera dei deputati e della rappresentanza delle istituzioni territoriali al Senato – e sulle numerose e rilevanti funzioni, anche innovative (legislative, di controllo, di raccordo, etc.) assegnate a quest’ultimo; ritengo però che le funzioni del nuovo Senato, così come configurate, dovrebbero essere molto impegnative, per cui la sua attività – lungi dall’essere un’attività “dopolavoristica” – non dovrebbe avere prevedibilmente una “intensità” così tanto inferiore a quella della Camera dei deputati. Per questo motivo, il drastico ridimensionamento del numero dei senatori (da 315 a 100) mi pare eccessivo, al punto da poter compromettere l’efficienza dell’organo, ovvero la sua capacità reale di far fronte ai nuovi ruoli assegnatigli. Per i sostenitori della riforma, questa drastica riduzione di numero vuole costituire una risposta forte alla domanda, molto diffusa nell’opinione pubblica, di ridurre il numero dei politici e il costo della politica; osservo però che la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali istituita nel 2013, nella sua relazione finale alle Camere, in ordine alla riduzione del numero dei parlamentari presentò la proposta «di un deputato ogni 125.000 abitanti, per un totale di 480 deputati, senza escludere criteri più restrittivi», e per i senatori si propose «un numero non inferiore a 150 né superiore ai 200» (Schede di lettura cit., p. 294). Ora, suscita sconcerto il fatto che si sia proceduto ad un ridimensionamento così drastico del numero dei senatori (più di quanto fosse stato prospettato dalla Commissione), mentre il numero dei deputati – attualmente, 630 – non è stato per nulla ridotto. In base a quale logica si è ritenuto che per il ruolo affidato alla Camera dei deputati siano indispensabili tuttora 630 componenti, e per quello – in un certo senso, parallelo – del Senato ne bastino 100?
  2. un ulteriore, rilevante ostacolo all’efficienza del nuovo Senato deriverà inoltre, a mio avviso, dal cumulo delle cariche che riguarderà 95 senatori: ciascuno di essi sarà contemporaneamente anche sindaco, o Consigliere regionale, e come tale dovrà ritenersi in dovere di svolgere ciascuna delle due cariche con l’impegno richiesto e atteso dagli elettori. Già ora non è infrequente sentir parlare di assenteismo di deputati e senatori, abitualmente impegnati, oltre che nell’attività parlamentare, anche nelle attività di partito, nella cura dei rapporti con il territorio di riferimento e in altri impegni politici e di rappresentanza, quando non nel proprio lavoro professionale. Immaginiamo ora un sindaco che trascorra buona parte della settimana a Roma anziché nella sua città: riuscirà ad affrontare (e ancor prima, a conoscere bene) i problemi di quest’ultima? In che misura potrà rispondere alle attese dei cittadini suoi elettori?
  3. per quanto detto sopra, le difficoltà operative derivanti dal cumulo delle cariche non dovrebbero avere come contropartita la possibilità, per il Senato, di fruire di specifici apporti conoscitivi e di esperienza, perché la realtà delle istituzioni territoriali resterà verosimilmente fuori dall’esperienza dei senatori;
  4. appare una indebita penalizzazione la negazione ai senatori della relativa indennità parlamentare, poiché la doppia carica implicherà un doppio impegno e una doppia responsabilità. Il divieto di cumulo delle indennità è stato finora coniugato con il divieto di cumulo delle cariche, e quest’ultimo sarà soppresso per i senatori e mantenuto negli altri casi (con quale ratio?); in tal modo, la soppressione dell’indennità per i senatori appare espressione di un rigore finanziario fuori posto, in definitiva “mortificatorio” della dignità costituzionale della seconda Camera della Repubblica;
  5. la fisionomia del nuovo Senato presenta profili di ambiguità, e comunque appare non del tutto definita. In particolare, mi chiedo fino a che punto questa nuova funzione di “rappresentanza/rappresentatività delle istituzioni territoriali” attribuita ai senatori voglia cancellare/rendere irrilevanti le loro appartenenze politiche, ovvero promuovere una sorta di “apoliticità” per una delle Camere del Parlamento. A suscitare l’interrogativo sono le modifiche proposte alle norme costituzionali che fanno riferimento ai gruppi parlamentari: questi ultimi non saranno più previsti per il Senato ma solo per la Camera dei deputati, «lasciando in tal modo all’attuazione della riforma ed al definirsi del ruolo e dell’articolazione del nuovo Senato la previsione o meno di gruppi parlamentari in tale ramo del Parlamento» (Schede di lettura , p. 283). La mancanza di motivazioni di tale scelta «rivela un margine di incertezza, perché il modello prescelto» per la composizione del Senato «è suscettibile di riproporre criteri di composizione politica, seppure mediati dal criterio della rappresentanza territoriale. Nello stesso tempo, però, questo tipo di composizione potrebbe essere funzionale a fare del Senato una vera camera parlamentare, capace di integrare la rappresentanza in chiave pluralistica»; più in concreto, il Regolamento del Senato potrebbe anche disciplinare i gruppi parlamentari in modo da «consentire forme di aggregazione connesse ad elementi territoriali oltre che politici, o addirittura in alternativa a questi», dato che le modifiche apportate alle norme di cui sopra «sembrano presupporre la “non necessarietà” dell’articolazione del Senato in gruppi politici». Questo anche se «i nuovi senatori saranno comunque eletti sulla base di liste “collegate” a partiti o movimenti politici» (Schede di lettura cit., pp. 93-94). Sono, questi, rilevanti margini di incertezza nella configurazione del nuovo Senato;
  6. da ultimo, lascia perplessi la differente tipologia di “rappresentanza delle istituzioni territoriali” del nuovo Senato, tra senatori-Consiglieri regionali (che, insieme, rappresenteranno l’intero territorio della Repubblica) e senatori–sindaci (che rappresenteranno solo un “campione casuale” del mondo dei Comuni italiani); si tratta di un ulteriore profilo di ambiguità, che suggerisce l’opportunità di una rivisitazione della fisionomia del nuovo Senato (per farne, ad esempio, con più determinazione, una Camera delle Regioni).

Conclusivamente, alcune scelte dei riformatori non mi paiono condivisibili, altre appaiono espressione di un progetto incompiuto, che troppo affida alla legislazione ordinaria per definire – in aspetti non secondari – la fisionomia del nuovo Organo. Il mio timore è quello che la reale operatività del nuovo Senato proceda in maniera incerta e comunque resti molto al di sotto del ruolo assegnatogli, generando in tal modo un “bicameralismo differenziato apparente” o, ancor più chiaramente, un “monocameralismo mascherato”. A mio avviso, è meglio pertanto che – in attesa di una riconsiderazione del tema – non si proceda allo smantellamento del Senato attuale, che – con i suoi punti di forza e di debolezza – dal 1948 è stato comunque parte attiva della nostra vita democratica ed ha accompagnato il processo di sviluppo sociale ed economico del nostro paese. Se passa la riforma, su questo punto tornare indietro non sarebbe facile.

 

Queste sono le motivazioni che a mio avviso depongono per un NO deciso alla riforma costituzionale.

 

Salvatore Leonardi

 

 

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