Ripartire si deve

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Dopo una vicenda così inopinatamente dura e divisiva come quella referendaria, non è facile dire da dove e come si possa ripartire. Ci possono essere considerazioni diverse a diversi livelli: il paese, la politica, il nostro mondo culturale.

Rispetto al paese, non è difficile dire che occorre tornare a un minimo di normalità, dopo gli eccessi di questa vicenda referendaria. Occorre abbassare i toni, fare un governo che assicuri la normalità, curi il necessario adeguamento della legge elettorale, e torni a nuove elezioni con ragionevole calma e con tutti gli elementi per non far diventare l’appuntamento elettorale una nuova premessa di instabilità come nel 2013. Per fortuna, la stessa assenza della speculazione internazionale sul sistema italiano ci dà il segnale che non siamo all’ora della tregenda. Va da sé che assicurare questo è compito e responsabilità innanzitutto di un partito come il Pd che ha la maggioranza assoluta alla Camera e una cospicua maggioranza relativa al Senato. E inoltre il referendum non ha di per sé messo in crisi la maggioranza che sosteneva il governo. Non era scritto che Renzi dovesse dimettersi: se l’ha fatto, e non vuole tornare “sulla graticola”, qualcun altro del suo partito potrà sostituirlo. E bisognerà intanto riflettere sul messaggio chiaro delle urne: non si devono immaginare più riforme della costituzione ampie, composite e non lineari, e soprattutto approvate a colpi di maggioranza di governo. Occorrerà preparare, al massimo, singoli modesti ritocchi sui punti più sensibili, su cui cercare maggioranze ampie (intendo dire propriamente più di due terzi dei parlamentari).

Quanto al futuro politico, in termini di progettualità possibile, sono sempre più convinto che la frattura profonda tra paese e classe politica non sarà sanata se non con uno sforzo inedito e originale per costruire un disegno di sinistra moderna, che faccia della questione dell’eguaglianza e della crescita sostenibile (pulita e giusta) il perno del suo lavoro. Ponendo le basi per una politica europea totalmente diversa da quella dell’austerità, e cogliendo il segnale di un ritorno della statualità che il mondo sta dando, non per mettersi contro la globalizzazione, ma per regolarla finalmente in modo deciso ed equo. L’Italia non può andare da nessuna parte senza questo orizzonte. Chi può incarnare questo progetto se non un partito di centro-sinistra plurale e articolato come il Pd? Ma qui sta il problema.  Il Pd di Renzi, nella sua postmodernità, ha seguito una linea molto, troppo ondeggiante su questo punto (tenendo la barra dritta su alcune poche questioni – e questo gli va riconosciuto, come ad esempio sull’immigrazione –, parlando bene ma fermandosi alla tattica e alle proclamazioni di principio su altre problematiche e cedendo vistosamente infine su molti altri capitoli, dove la retorica riformista ha inseguito il trend del semplice favore al mercato). La discussione interna al partito non sembra essere in un momento che permetta floride possibilità di modifiche della linea politica. Stimolare seriamente da sinistra il Pd, in una logica competitiva-complementare potrebbe essere possibile (se si accedesse a un modello di coalizioni senza illusorie autosufficienze). Purtroppo un disegno di questo tipo non sembra avvicinarsi: la minoranza del partito pare confusa e divisa, mentre ogni mini-scissione ha per ora ulteriormente spezzettato il quadro, invece che costruire una solida convergenza.

Il nostro mondo culturale (soi disant) cattolico-democratico si è rivelato profondamente diviso in quest’occasione, come e più di molti altri ambienti. Per certi versi potrebbe essere anche ovvio, visto che pochi si sono salvati da questa deriva. Per altri versi, però, la divisione potrebbe anche essere stata frutto di una debolezza dei nostri fondamenti comuni molto più pronunciata di quanto almeno il sottoscritto modestamente pensasse (o sperasse). A me ha impressionato quanto poco si sia riusciti a capirsi tra di noi in questi mesi su un tema-chiave come quello della “coscienza costituzionale”, come la chiamava Dossetti. Ma sono emersi altri punti di differenza non banale, come quello che cova da lunghi anni sul senso da dare alla tendenza alla verticalizzazione della politica e alla prevalenza degli esecutivi a tutti i livelli. Del resto, questo fragile raggruppamento di esperienze cultural-politiche è nato con chiarezza almeno su un punto: non pensavamo di poter rappresentare e nemmeno costruire una posizione politica unica e condivisa. Ma abbiamo investito sulla scommessa che una comune sensibilità spirituale-cultural-politica potesse essere una base per lavorare assieme, per realizzare una condivisione, uno scambio e una ricerca che potessero essere anche fecondi su diversi piani. Abbiamo ancora le risorse e le energie per costruire questo cammino comune, magari anche da posizioni politiche diverse? Possiamo valorizzare la diversità per approfondire culturalmente sia quello che ci unisce che le opinioni che ci dividono, in modo da essere progettualmente più attrezzati sul futuro? Questo sarebbe un contributo di valore inestimabile, in un momento in cui tutti i legami orizzontali e i circuiti di riflessione mostrano la loro fragilità.

 

Guido Formigoni

 

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  1. La paradossale e devastante campagna referendaria è finalmente finita. Il risultato, salvo l’ampiezza, il risultato era tutto sommato scontato, Archiviato il referendum restano aperti i molti interrogativi sulle ragioni del voto e, nuovo Governo a parte, sulle prospettive della rappresentanza della politica.
    Il primo interrogativo è: chi ha vinto? certamente ha vinto la coalizione del “no” con il 60% dei voti contro il 40% del “sì” ma sicuramente non ha vinto Salvini, neppure Grillo e tanto meno Berlusconi, per non parlare della galassia di Sinistra Italiana e della minoranza del PD che pure hanno votato “no”. La vittoria del “no”, dunque, resta una vittoria dai molti e policromi padri. Sicuramente ha perso Renzi, ma il 40% dei voti per il “sì” sta in un campo un po’ più omogeneo di quello del “no”.
    Il secondo interrogativo è: perché ha vinto il no? Tre possibili ragioni: 1) perché questo variegato schieramento rappresentava il 75% dei voti delle ultime elezioni politiche; 2) perché i contendenti in campo hanno fatto di tutto per cambiare le ragioni del referendum che alla fine non erano più sulle modifiche della Costituzione ma su se Renzi doveva essere mandato a casa o meno, 3) perché attorno al “no” si è coagulato tutto il malessere del Paese e le vendette politiche e personali.
    Conseguenze ovvie e politicamente corrette dell’esito referendario le dimissioni di Renzi, l’avvio delle procedure per la formazione di un nuovo Governo, nonché la fiducia concessa dal Parlamento al Governo Gentiloni. Se non altro c’è la speranza che tutti i problemi accantonati dalla campagna referendaria possano divenire oggetto dell’iniziativa del Governo e della politica.
    E sulle prospettive della rappresentanza della politica, qualcuno direbbe dell’alchimia della politica, credo possano valere queste riflessioni:
    1) le forze politiche che hanno vinto il referendum non sono e non rappresentano una coalizione politica e un’alternativa di Governo. Di certo il no ha vinto ma non si può dire che la vittoria sia di Salvini, oppure di Berlusconi o di Grillo, perchè oltre a loro c’è una parte del PD e quasi tutti i cespugli che stanno alla sinistra del PD. E’ una ben strana e variegata coalizione che non ha vinto le elezioni politiche, ma solo il referendum. Per dimostrare di essere coalizione politica e alternativa di governo si devono presentare alle elezioni politiche, che mi auguro avvengano il più presto possibile, indicando programmi e proposte di Governo. In tal caso, se vinceranno, sarà per volontà popolare che governeranno. Sicuramente non ha prevalso Renzi, ma il 40% dei voti per il sì è in un campo sicuramente più omogeneo di quello del no.
    2) l’esito del referendum è destinato a sconvolgere il quadro politico essendo profonde le fratture che si sono manifestate in campagna referendaria all’interno del PD, tra il PD e i cespugli alla sua sinistra, ma anche nel centro destra, in particolare in Forza Italia e tra questa e Salvini, meno nel M5S che resta immobile in attesa dell’investitura elettorale per governare. Mi interessa poco di quanto potrà accadere nel centro destra, viste le divisioni che vi sono credo resterà all’opposizione per molto tempo. Nel PD invece l’evidente frattura in essere aspetta solo di essere sanzionata in separazione, e ciò avverrà quando sarà chiaro che qualcosa di nuovo potrà nascere assieme a pezzi dei cespugli della sinistra. In questa prospettiva suscita interesse l’iniziativa di Giuliano Pisapia per costruire un nuovo contenitore politico destinato ad allearsi con ciò che resterà del PD, ma la sinistra alla quale questa proposta si rivolge è percorsa da almeno altre due tensioni: la prima che guarda al M5S come possibile, anzi auspicabile approdo, la seconda che dice “mai con questo PDR (Partito di Renzi) restiamo da soli”.
    3) per molte ragioni ho scelto di non aderire ad alcun partito ma di praticare la professione di “apolide politico” consapevole di essere obbligato, pur con molte riserve ed esplicite critiche, a votare PD per mancanza di alternative credibili. In questa stagione di cambiamenti, in questo caso non cambiamenti d’epoca come dice Papa Francesco, ma semplicemente epoca di cambiamenti nell’essere della politica, mi auguro si verifichi, riguardo al PD, quanto auspica Massimo Cacciari, cioè quella della consensuale divisione del PD tra la minoranza che potrà confluire nell’iniziativa di Pisapia e la maggioranza renziana che potrà costituirsi come forza politica di centro sinistra.
    Se tutto ciò riguarda l’architettura del sistema politico del centro sinistra, per quanto importante possa essere è solo la premessa per una diversa proposta politica che non potrà prescindere dal dare risposte ai molti temi dell’economia, del deficit di bilancio, della povertà, della disoccupazione, delle disuguaglianze, dell’evasione fiscale, dei profughi, dell’Europa, ecc. Questo è il terreno dal quale ripartire!
    E i cattolici in tutta questa epoca di cambiamenti dove sono? Ma soprattutto, di cattolici impegnati in politica ce ne sono ancora? Certo è che, se mai lo siano stati in passato, oggi i cattolici in politica non sono esempio di unità, quanto piuttosto di divisibilità e pluralità. Il che salva almeno lo spazio della personale testimonianza, e non è poco.

  2. Vorrei intervenire brevemente sulla questione dei cattolici e sulla loro diversità nel rapporto con il Referendum costituzionale. La cosa non mi scandalizza: credo che sia ormai acquisito che la fede cattolica non presuppone un’unica posizione politica se non sono in gioco questioni di fede, i cattolici non sono un partito! Dai cattolici si deve pretendere un approccio corretto e responsabile alle questioni politiche, un approccio rispettoso della importanza della politica e che faccia riferimento alla ricerca di ciò che è “buono” e che è “giusto” per la comunità sociale. Questo presuppone la preoccupazione di discernere con “sapienza”. Credo che nel Referendum ci fossero buone ragioni per votare NO e buone ragioni per votare SI, ed era giusto e corretto preoccuparsi del merito della riforma costituzionale e pure della situazione politica su cui il Referendum avrebbe influito. L’unità deve essere trovata nella comune preoccupazione per il miglior “bene comune” e nell’assunzione della responsabilità che compete ad ognuno! Poi è legittima e naturale la diversità di giudizio e di valutazione se c’è questo presupposto!

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