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  1. OTTOMARZO 2017

    Giancarla Codrignani

    Un Ottomarzo da meditare, quello di quest’anno.
    Sono state soprattutto le più giovani a pensare NON UNA DI MENO per un giorno “senza fiori e cioccolatini” e allo “sciopero di genere” per denunciare la violenza dei femminicidi e, insieme, il pregiudizio sessista che penalizza il lavoro.
    Sull’adesione non c’è stata unanimità. Il dissenso è fondato, a mio avviso: preoccupa che le donne si adeguimo a una storia inesorabilmente esaurita e non approfittino di una crisi epocale che rimette in discussione quasi tutte le strutture sistemiche per far avanzare le proprie teorie contro l’onda di riflusso in corso.
    Lo sciopero internazionale lanciato dalle donne argentine è una cosa seria, ma riduttiva dell’ambizione di contare “partendo da sé” con proprie proposte innovative per il cosiddetto “mondo migliore”. Anche perché paghiamo tutti, donne e uomini, i ritardi riformatori: mentre il mondo corre più veloce delle nostre abitudini mentali, nemmeno i “compagni” si accorgono di vivere nel 2017. Eppure è dietro l’angolo il rischio che si esauriscano le speranze di due secoli di impegno progressista.
    Le donne non sono salvifiche per natura, né sono geneticamente migliori, ma quello che dicono, fanno o propongono deve trovare la via per poter valere. Ma occorre far avanzare non solo il pensiero teorico, ma anche la proposta politica che, mettendo in causa l’egemonia del pensiero unico (maschile), arrivi ai tavoli dei potere. Le donne non debbono subire il contagio della paura di un futuro che si presenta in modo inedito e sta condizionando governi e cittadini dell’intera Europa e del mondo. Anche perché i politici, i sindacalisti, gli intellettuali, i giuristi (che hanno sempre in mano la Costituzione, massimo strumento politico della polis) non stanno aggiornando le categorie dei diritti per poterli mantenere nelle trasformazioni in corso.
    L”appello allo sciopero globale grida “Se le nostre vite non valgono, non produciamo”: una giornata di lotta, non è “un’occasione per… far girare l’economia”. Riandiamo dunque – si dice – a San Pietroburgo dove le donne un secolo fa, per chiedere la fine della guerra, anticiparono sul calendario la rivoluzione; oppure, ancor prima, ricordiamo la New York femminile del 1908 che chiedeva il pane e le rose (e il voto) o del 1911 dopo il rogo che fu strage per 129 lavoratrici.
    Oggi urge ripensarci dentro “questa” realtà e attrezzarci. Le argentine hanno lanciato un appello globale senza possedere i mezzi di Zuckenberg. Se vogliamo interagire con il mondo, bisogna alzare le competenze della comunicazione. Nemmeno i partiti (salvo Grillo e soci che ci giocano sporco) sanno usare bene il potenziale politico della comunicazione virtuale e mantengono siti inadeguati, senza “fare rete” e senza investire per creare le basi di una comunicazione efficace a livello locale, nazionale e internazionale. Le donne hanno fior di tecnologhe che possono inventare pratiche di risonanza efficace per confrontare ed elaborare strategie comuni.
    Tuttavia è un’altra la domanda che importa di più: lo sciopero è ancora oggi una strategia per i nostri fini? La trasformazione radicale del processo produttivo e la globalizzazione del sistema capitalistico (che esige modificazioni per non peggiorare ulteriormente), manca di risposte immediate. Ma, mentre la mitica classe operaia è in via di radicale ricomposizione, la realtà del telelavoro, dell’immigrazione, dei voucher, del probabile reddito di cittadinanza e insieme la progressiva privatizzazione dei comparti, già reale con Uber e Amazon – lo sciopero non rappresenta una garanzia come quando la rinuncia del salario era l’arma nonviolenta contro l’insostenibilità del lavoro e la violenza delle imprese. I diritti esigono sempre più di adeguare le proprie difese alle innovazioni di sistema: se perfino i sindacati mancano di fantasia, non possiamo, proprio noi donne che da sempre sentiamo sulla pelle le conseguenze dei torti, domandarci e domandare come ripensare il valore simbolico della protesta tradizionale, sia in Italia, sia nel mondo (soprattutto se mai avanzasse il Ttip), oggi ancora possibile solo per i lavoratori stabilizzati di imprese sicure?
    Qualche anno fa sarebbe stato utile proporre lo sciopero delle casalinghe: si sarebbe dimostrato che, se le donne del mondo vanno a spasso dopo il lavoro (quelle che lo hanno), ma non mettono nulla in tavola, lasciano i letti disfatti, il fuoco spento e i bambini per strada, gli uomini se ne accorgono. Non una di meno, invece, pensa che si può ricorrere al “supporto mutualistico” di “uomini… che svolgano un lavoro di supplenza”, come se l’iniziativa non avesse come obiettivo principale la “violenza di genere” di cui gli uomini sono autori e che non è mai stata oggetto di grandi manifestazioni maschili.
    Se, poi, bisognasse davvero tornare indietro, lo sciopero di Lisistrata era una proposta migliore. Infatti non è molto logico ricorrere a “scioperi, presidi e picchetti” (e perfino all’escrache argentino, una sorta di medievale gogna dal basso) “a dispetto di chi ci uccide per ‘troppo amore’, di chi, quando siamo vittime di stupro, processa prima le donne e i loro comportamenti; di chi ‘esporta democrazia’ in nostro nome e poi alza muri tra noi e la nostra libertà”. Per far cessare la demenza dei maschi che facevano la guerra, una signora di duemila quattrocento anni fa pensava più efficace – non ridete, per piacere – lo sciopero del letto….

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