Moro: l’uomo e lo statista

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Pubblichiamo il testo dell’intervento dell’autore alla presentazione del libro di Guido Formigoni Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, tenutasi al Teatro Eliseo a Roma il 10 ottobre. L’autore è stato tra i fondatori della Comunità di Sant’Egidio e poi della Caritas di Roma assieme a mons. Luigi Di Liegro, segretario della Lega Democratica con Pietro Scoppola, professore di Metodologia della ricerca sociale alla Sapienza e ricercatore al Censis con Giuseppe De Rita, manager pubblico, rappresentante del Ministero del Lavoro all’Ocse, capo di gabinetto del presidente del Senato Franco Marini; dal 1997 a oggi direttore generale del Cnel; e, di recente, capolista della Lista Civica per Fassina alle elezioni comunali a Roma.

 

Il libro di Guido Formigoni “Lo statista e il suo dramma” è un grande lavoro di ricostruzione politica con molti documenti e fonti archivistiche, anche di prima mano: archivi nazionali e americani, archivi di partiti e di molti uomini politici. Abbiamo finalmente una prima grande opera organica di studio su una figura straordinariamente complessa e ricca come quella di Aldo Moro.

E’ anche il primo studio che, dopo quarant’anni dalla scomparsa, non ci parla solo delle circostanze della tragica morte di Moro. Per decenni abbiamo avuto solo libri orientati ad analizzare le cause e i mandanti del suo assassinio. In questo modo abbiamo finito per dimenticare Moro, il suo pensiero politico, la sua iniziativa politica, la sua umanità.

Ho pubblicato di recente una antologia del pensiero e dei discorsi di Moro, uscita con il titolo “Governare per l’uomo”. Sono quindi fresco della lettura di migliaia di pagine di Moro. In questo libro ho trovato molte conferme alle idee che mi sono venute in mente rileggendolo.

Moro fu sempre al vertice della vita istituzionale e politica italiana, da quando nel 1945, si avvicinò e si iscrisse alla Democrazia cristiana. Arrivò giovane, a 29 anni, ma già come un uomo maturo, con una sua posizione professionale chiara e autonoma, quella di docente universitario. Una passione professionale che lo caratterizzò per tutta la vita. Quando i suoi più stretti collaboratori, di fronte alle esigenze degli impegni politici e di Stato, gli chiedevano di accantonare il suo lavoro di professore universitario, le sue lezioni, diceva sempre: se devo davvero scegliere preferisco fare il professore!

Moro amava molto la scuola e l’università. Considerava l’impegno educativo e formativo con i giovani come essenziale per la democrazia, per il rafforzamento e la diffusione della cultura democratica. I giovani avrebbero fatto crescere e vivere la Repubblica e la Costituzione, più delle generazioni anziane educate sotto il fascismo.

Moro faceva le sue lezioni parlando sempre di filosofia del diritto, offrendo spunti di grande interesse per gli studenti. Poi si fermava a parlare con loro, specie con i fuori sede, chiedendo notizie sui loro paesi di provenienza, sulla loro condizione sociale. Considerava questo scambio indispensabile anche per la sua vita politica.

 

La maturità umana e l’autonomia professionale sono tratti a mio parere determinanti del giovane Moro che si affaccia sulla scena politica a Roma. Importanti anche per comprendere la forza e la tempra del percorso di Moro attraverso la politica che per Moro era una missione esistenziale. Da credente la considerava, secondo la visione montiniana, la forma più alta della carità. E Moro era un cristiano che viveva quel nesso indissolubile, continuamente sottolineato nel Nuovo Testamento, tra la fede e la carità. Nella sua proiezione politica Moro non fu né degasperiano né dossettiano. Fu attento e rispettoso di entrambe  queste grandi personalità. Ma più semplicemente fu Moro, senza sentirsi, legato strettamente alle identità di altri. Aldo Moro aveva partecipato a tutto il percorso che aveva portato il gruppo intellettuale e professionale di punta del mondo cattolico alla elaborazione del Codice di Camaldoli. Era stato Presidente della Fuci e del Movimento dei Laureati cattolici.

Aldo Moro svolse sempre un ruolo di grande rilievo. All’Assemblea Costituente, nel Gruppo parlamentare democratico-cristiano, al Governo, al vertice del Partito. Ricordo personalmente quando, nel 1976, divenne Presidente del Consiglio nazionale della Democrazia cristiana. Vi fu grande incertezza e stupore nell’opinione pubblica per una carica fino ad allora sconosciuta e di nessun rilievo. Con Moro divenne l’espressione di sintesi del suo partito, e veniva perciò qualificato come Presidente della Democrazia cristiana, della quale era Segretario politico il suo amico Benigno Zaccagnini. Quasi certamente Moro sarebbe salito come Presidente della Repubblica al Quirinale nell’estate del 1978 se non fosse stato rapito e ucciso. Nella storia della Democrazia cristiana nessun’altro uomo politico, tranne De Gasperi (il cui apporto temporale fu purtroppo ben inferiore), ha avuto una funzione così determinante.

 

Per mettere a fuoco la figura e l’ispirazione di Moro sono molto importanti i suoi scritti giovanili, quelli tra il 1943 e il 1945-6, pubblicati  per alcuni periodi baresi. Lì ci sono già tutte le basi profonde e chiare del suo pensiero, della sua visione della democrazia, dello stato, della politica.

E’ centrale l’impegno per l’umanizzazione della politica, dopo la lunga vicenda del totalitarismo fascista, che aveva schiacciato gli uomini, la loro libertà e i loro legami sociali . Moro considera la democrazia non come un astratto meccanismo di massa, ma come una dinamica di uomini liberi e consapevoli, una dinamica inclusiva e fortemente partecipativa. Moro ritiene che la politica sia anzitutto ascolto degli uomini e della loro realtà concreta e che da questo si debba partire. Queste per Moro non sono parole vacue e retoriche. Sono l’essenza di tutta la sua lunga iniziativa. Si potrebbe anche dire che Moro era a-ideologico. Aveva una profonda cultura e conosceva tutte le principali ideologie del ‘900. Conosceva bene anche la dottrina sociale. Ma tutti questi saperi non costituivano per lui assunti dottrinari da applicarsi meccanicamente. Capiva la società nel suo insieme, i moti profondi del popolo, la complessità sociale. Il cambiamento della società e i movimenti di massa non lo spaventavano: ne cercava l’anima, per ascoltarla ed entrare in dialogo. Fu il più pronto e attento dei democratici cristiani di fronte alle rivoluzioni del 1968: alla protesta dei giovani e delle donne, alla sollevazione del mondo del lavoro.

Moro aveva una concezione del potere politico che si basava su questa visione. Il potere non era pienamente legittimo se non si fondava sull’esercizio costante di questa capacità di ascolto, di analisi, di comprensione, e sul conseguente impegno per la definizione della miglior soluzione democratica per i problemi aperti.

Nel 1974 Moro ammonisce i suoi colleghi di partito sulla urgenza delle rinuncia a privilegi e vantaggi, su comportamenti politici essenziali e sobri per rispondere alle nuove esigenze della società. Parlò contro la corruzione strisciante che non significava solo tangenti ma una forte tendenza del ceto politico al mandarinato,

La figura politica e umana di Moro è stata spesso deformata e sminuita da numerose argomentazioni negative, ripetute come mantra dai suoi non pochi detrattori e nemici politici. Ci sono delle interpretazioni, delle valutazioni, tutte mirate a offuscarne la grandezza e l’influenza nella vita politica della Repubblica.

 

Si parla di un Moro con una debole efficacia come uomo di Governo: se rimaniamo ai fatti questi parlano da soli : Moro qualificò tutta la politica scolastica italiana per oltre vent’anni creando la scuola media unificata e sostenendo la parità tra scuola pubbliche e private. Costruì per anni una politica estera democratica aperta ma non subalterna agli americani, rafforzo la Comunità europea, potenziò i legami con il vasto mondo arabo, rilanciò l’attenzione alle nostre ex colonie in Africa intuendo l’importanza di una responsabilità post coloniale. Negli anni Sessanta sostenne le  politiche redditi, il rafforzamento della programmazione e tutte le riforme centro sinistra.

Si parla poi di un Moro la cui politica sarebbe stata solo mediazione, compromesso, intendendo con questi termini qualcosa di estremamente riduttivo e di basso profilo.

Anche in questo caso se si osservano i fatti questi parlano da soli: fu protagonista alla Costituente (art. 6 sulla libertà e la dignità della persona umana ; gli articoli 33 e 34 sulla scuola, il diritto allo studio, la libertà d’insegnamento e della cultura); elaborò la strategia politica del centro sinistra che allargava la base democratica con i socialisti e rompeva il Fronte socialcomunista, isolando e costringendo il Partito comunista ad un cammino di definitiva rinuncia alla prospettiva della rivoluzione socialista; elaborò quindi la visione politica dell’apertura alla collaborazione programmatica con il PCI.

Si parla ancora di un Moro spesso contorto e confuso, incomprensibile, che usava espressioni apparentemente illogiche come le “convergenze parallele”: in realtà basta leggere Moro, la sua prosa, basta ascoltarlo per coglierne la chiarezza espositiva e la razionalità analitica e sintetica. Non era oratore da frasi secche e da giudizi sommari.

Sapeva che la realtà italiana è molto complessa e non lo nascondeva. Anzi si sforzava di far capire come avesse voglia di comprendere e spiegare questa realtà.

Si dice ancora di un Moro poco popolare, poco amato dalla popolazione. Anche in questo caso i numeri parlano da soli. Veniva eletto nel circoscrizione elettorale di Bari- Foggia con oltre 200 mila voti di preferenza, e non aveva alcuna macchina organizzativa dietro di se, nel senso che non partecipava a battesimi, matrimoni, o funerali dei suoi elettori, né gestiva il voto clientelare promettendo favori e posti di lavoro. Semplicemente era Moro: un deputato che amava il suo collegio, la sua terra, dove spesso tornava per parlare con la gente, per ascoltare, per spiegare la sua politica a folle che lo ascoltavano a lungo in silenzio.

 

Perché allora tutte queste critiche, alcune delle quali ancora resistono anche nelle ricostruzioni e nelle interpretazioni di molti storici e politologi? In realtà dietro a queste critiche, che cominciarono pesanti all’inizio degli anni Sessanta e lo accompagnarono sempre fino alla fine, c’era il suo vero nemico che era la destra italiana. Non soltanto o tanto la destra parlamentare, ma la destra economica, di lobbies agrarie, industriali e proprietarie, la destra clericale e di parti significative della Chiesa italiana, la destra culturale e di mezzi di informazione, di pezzi importanti degli apparati più delicati dello Stato.

La ragione di questo scontro feroce stava nel fatto che negli anni Cinquanta si era coltivata in Italia l’idea che la Democrazia cristiana  dovesse allearsi stabilmente con le forze di destra e creare un blocco conservatore forte, per contrastare il Fronte socialcomunista e le richieste popolari di maggiore giustizia sociale e di attuazione dei diritti costituzionali.

Moro aveva un solo nemico politico ed era questa destra ancora imbevuta di fascismo e poco democratica. L’Italia era passata dal Fascismo alla Repubblica democratica senza una profonda autocritica civile, senza un rivolgimento incisivo delle coscienze di molti italiani. Si preferì una transizione più morbida e assolutoria. Moro perciò sapeva bene che se la DC avesse aperto in questa direzione la stessa Costituzione sarebbe entrata in crisi e nel Paese sarebbe anche potuta riprendere la guerra civile.

Non c’era stata una Norimberga in Italia e il demone del totalitarismo ancora aleggiava nel clima della guerra fredda. Per tutto questo Moro fu sovente aggredito da una certa stampa di destra, e queste critiche furono per un certo periodo anche riprese da sinistra.

E questi acerrimi nemici contribuirono alla sua tragica morte, perché annidati in molti gangli particolari dello Stato, contribuirono ai depistaggi nello sforzo di individuare la sua prigione, e alla confusione che impedì ogni equilibrato esame delle simboliche richieste brigatiste.

Si dovrebbe sempre ricordare l’intervista che un certo Berlusconi – allora quarantenne, costruttore milanese d’assalto, che teneva un revolver sul tavolo come autodifesa – rilasciò nel luglio del 1977 a Mario Pirani di Repubblica. Parlando di quegli esponenti della destra democristiana milanese, che lui intendeva appoggiare insieme ai socialisti di Craxi, ebbe a dire: “Sono politici che si sanno presentare in modo chiaro e immediato, facendosi capire dalla gente. Non come Moro, che ogni volta che apre bocca ci vuole un esercito di esegeti per interpretarlo. Questi capi storici hanno il culo per terra ma ingombrano la porta”. Pochi mesi dopo Moro fu rapito e ucciso, e le indagini successive hanno accertato che molti esponenti delle forze dell’ordine e dei servizi segreti che avrebbero dovuto liberarlo erano membri della loggia massonica deviata P2 di Licio Gelli, alla quale aveva aderito anche lo stesso Silvio Berlusconi.

 

Non si può, infine, non fare un cenno all’importanza che Moro attribuiva al suo partito e ai partiti in generale come strumenti per la partecipazione democratica dei cittadini alla vita politica. Sentiva l’urgenza di dare attuazione all’articolo 49 della Costituzione, alla definizione del metodo democratico non solo nella vita interna dei partiti, ma nei rapporti tra i partiti stessi. Anche fra posizioni opposte e divergenti vi era una comune responsabilità repubblicana, per la tenuta e la crescita della democrazia, e quindi per il funzionamento delle istituzioni, superando ogni estremismo che rompeva questo indispensabile riconoscimento e rispetto.

Se Moro fosse vivo oggi ci insegnerebbe queste cose, ci spingerebbe ad una politica più vicina all’uomo, alle persone, solleciterebbe senza tregua i partiti a cercare, pur nella diversità, di cooperare per il bene comune.

 

Michele Dau

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