L’Europa e il dilemma del futuro

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Molti avvenimenti di queste settimane ci riportano alla domanda sul futuro dell’Europa:  dall’uscita del Regno Unito dalla Ue al tentato e fallito golpe in Turchia, dai minacciosi “stress test” sulle banche fino al rilancio del terrorismo con le stragi compiute spesso da singoli militanti o schegge impazzite. Visti assieme, questi eventi assumono dimensioni e prospettive diverse, e forse ci portano al cuore del problema europeo dei nostri giorni.

La «Brexit», com’è ormai ampiamente noto, è stata l’esito infausto di un gioco pericoloso di Cameron, prima ancora che una scelta democratica del popolo britannico. Infatti, il referendum è stato deciso come una scelta per mettere in questione gli equilibri di forze interni ai conservatori, sfidando il mutevole comportamento dell’elettorato. Il quale ha mostrato a risicata maggioranza di considerare l’Europa istituzionale un peso più che un’opportunità. Ora la delicata questione della separazione è in mano a un governo con una premier poco flessibile e un ministro degli Esteri poco credibile (a stare alla stampa inglese). Per un paradosso, più che una manifestazione di volontà popolare, la vicenda mostra di essere un ulteriore fallimento di capacità di previsione e gestione degli eventi da parte della classe dirigente.

Il colpo di Stato fallito contro Erdogan in Turchia (vero o fittizio che sia stato, non abbiamo elementi per dirimere una questione molto discussa a livello internazionale) ci interessa qui in quanto ha dato un altro segnale della reazione tremebonda dell’Ue agli eventi che incombono alle sue porte. Siccome dipende per i suoi fragili equilibri interni dal (pessimo) accordo con Ankara che ha calmierato i flussi di profughi verso il continente, l’Unione si è rivelata imbarazzata e contorta, sia nella condanna del tentato golpe che nella critica alla reazione spropositata del governo dell’Akp. Una permanente coda di paglia ha ridotto quindi ancora una volta il peso internazionale dell’Europa.

Nel frattempo l’economia europea veleggia sui bordi della recessione, nella manifestazione ormai conclamata della deflazione e dei tassi di interesse negativi. Giustamente è stato osservato che l’avvisaglia di una nuova crisi sulla solidità delle banche (non solo italiane… si pensi al colosso Deutsche Bank) non può oscurare il dato più forte di una situazione finanziaria inedita e preoccupante. Il tasso di interesse negativo non incentiva il risparmio a indirizzarsi verso gli investimenti (se non speculativo e azzardato): rivela quindi economicamente una sorta di sostanziale assenza di futuro. L’enorme massa di liquidità immessa nel sistema dalle banche centrali per salvarlo dai fallimenti della finanza speculativa ristagna in un orizzonte di brevissimo respiro.

Chiude il cerchio lo stillicidio di attentati, che porta insensibilmente a scendere ogni giorno di più la china di una condizione di insicurezza e quindi di allarme permanente e di militarizzazione del quotidiano. Qualcuno ha parlato di «sindrome israeliana», riferendosi alla non invidiabile situazione di una sicurezza minacciata che provoca una catena di irrigidimenti polizieschi e di reazioni terroristiche, tali da rendere ogni apparato di sicurezza costosissimo e al contempo inane a garantire quello che strutturalmente dovrebbe provvedere. Cioè, appunto, la tranquillità delle vite di tutti nella quotidianità.

L’intersezione di queste vicende, apparentemente lontane tra loro, si rivela quindi alla fine sempre più univoca e preoccupante. Non credo sia una forzatura leggere il tutto come rappresentativo di un continente ricco di storica, cultura, opportunità, risorse, che appare in preda a una sindrome preoccupante da invecchiamento umano, demografico ed economico. Un invecchiamento che si estende pericolosamente alle modalità operative di una classe dirigente – sociale ed economica, oltre che politica – preoccupata e miope, che ha perso il controllo degli eventi. Proprio quando la storia ci ha consegnato una risorsa straordinaria. L’Unione europea con la sua dimensione e le sue potenzialità potrebbe approfittare, proprio per le sue dimensioni e la sua credibilità istituzionale, delle inedite condizioni dell’economia per mobilitare a costi bassissimi strumenti, risorse, lavoro. Sarebbe infatti possibile, per l’Unione, quello che per i singoli stati è ormai difficilissimo. Indebitarsi a tassi irrisori per inventarsi un grande piano di rilancio degli investimenti in quel patrimonio collettivo (le infrastrutture, la cultura, la scienza) senza il quale non si può guardare al futuro in modo credibile e condiviso. Ciò darebbe un po’ di respiro alle nostre società impaurite, porterebbe meno paura dell’immigrato e del diverso, sgonfierebbe i populismi, integrerebbe meglio le fasce di popolazione a rischio marginalità (e soggette alla predicazione degli imprenditori del terrorismo). Creerebbe infine nuova legittimazione della politica e delle élites, di cui si riscoprirebbe finalmente un ruolo prospettico e non solo parassitario. Insomma, ci farebbe finalmente credere che questa nostra Europa invecchiata e stanca è invece ancora capace di giovinezza: l’unica cartina di tornasole infatti della gioventù è quella di scommettere sul proprio futuro.

 

 

Guido Formigoni

 

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  1. Condivido. Anche perchè si deve portare l’interesse delle persone e delle famiglie su aspetti legati alla ripresa, agli investimenti, al lavoro, al futuro (anche per una inversione demografica) che ricreino speranza; proprio per allontanarci da quella (secondo me creata ad arte) che provoca più militarizzazione, più fiducia nella violenza e nelle armi, più contrapposizione a quanti sono ritenuti . Il vero pericolo è che, anche la logica costituzione (insieme ad una politica estera, finanziaria, sociale comuni) di una difesa europea, si realizzi non nello spirito di superamento dei conflitti e di contributo alla pace e alla cooperazione, ma esclusivamente come strumento per fare guerre. Ciò che la costituzione dell’Europa voleva evitare; la sua contraddizione.

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