“La vanità della forza”. Aldo Moro, ragionatore politico fra il ’43 e il ‘45

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Il profilo di Aldo Moro che emerge dall’ultimo libro curato da Lucio D’Ubaldo e che raccoglie gli articoli scritti dallo statista pugliese su “La Rassegna” di Bari fra il 1943 e il 1945 (La vanità della forza. Gli articoli su “La Rassegna” di Bari (1943-1945), Eurilink, Roma 2016) è di assoluto livello ed interesse. Già con incarichi di docenza in Università e di responsabilità nell’ambito dell’associazionismo cattolico, Moro, nelle pieghe della crisi post armistizio e nel pieno della guerra che si combatte sul territorio nazionale, si confronta con il difficile nel contesto della realtà dell’Italia del sud, con il nuovo mondo dei partiti democratici, con le speranze del rinnovamento e della ricostruzione democratica, libera e antifascista del paese.

Gli articoli non sono molto lunghi, anche perché il giornale si sviluppava su un foglio stampato fonte retro, raggiungendo comunque quasi 50.000 copie. Leggendoli in maniera diacronica, però, non si possono che riconoscere alcuni dei tratti salienti di quella che sarà la sua vicenda politica e partitica, finanche di governo. La prosa è, come caratteristica di Moro, complessa ma non complicata, il tono a volte raggiunge acuti quasi lirici, di intensità e trasporto non comuni, l’ordito degli scritti è comunque ispirato e rivolto al futuro, armonizzato con sentimenti di concretezza, giustizia e libertà.

Si possono evidenziare, isolandoli, alcuni dei tratti distintivi del pensiero moroteo. Innanzitutto l’attenzione al lato umano e morale nell’ottica del recupero del popolo alla libertà e alla democrazia. Il tentativo, per tale motivo, di dipingere l’avvento del fascismo non come responsabilità esclusiva degli italiani, arrivando ad indicarlo quasi come fenomeno “imposto”, con un evidente intento retorico, ma come manifestazione e sintomo di una crisi mondiale, a livello valoriale, di natura quindi ben più vasta e profonda della, pur grave, esperienza totalitaria italiana. In un tale contesto di pensiero e valutazioni anche l’antifascismo doveva essere differente, segnare un cambio di passo, non tentare di riproporre, seppur in modo diverso, atteggiamenti passati: “Riconosciamo di essere un po’ fascisti tutti senza volerlo; e cioè esasperati, amari, opachi, incerti sui valori fondamentali della vita e quindi smaniosi di una azione quale che sia, incapaci d’intesa e di rispetto reciproco […] Dove il fascismo, con caratteristica superficialità, si limitò a far tacere gli uomini e a distruggere le cose che davano fastidio, l’antifascismo dovrà convincere ed incidere sulla interiorità efficacemente. Dove il fascismo coltivò l’irresponsabilità ed il disinteresse per tutto quello che è umano, dovrà l’antifascismo svolgere l’autonomia responsabile ed attiva della persona, e volere che essa abbia una fede, una sua libera fede, e la serva con fedeltà assoluta, fino in fondo. Dove il fascismo oscurò le differenze ed andò promovendo una piatta unità insignificante, l’antifascismo dovrà lasciarle sussistere, anche quando a questo o a quello non facciano comodo, ed incanalarle verso la sola unità ammissibile, quella generata dall’incontro rispettoso e dal vaglio serio ed onesto di tutti i punti di vista“.

Egli insisterà molto sulla necessità di vivificare lo “spirito” del paese, in grado di rimettere in circolo i valori di democrazia e libertà presenti nel suo tessuto connettivo. Soltanto in questo modo, attraverso quello che era uno sforzo di ciascuno, prima personale, individuale ed interno, che politico e pubblico, si poteva riscostruire l’unità, favorire la molteplicità, mettere in circolo nelle vene profondo della comunità nazionale una nuova idea di paese. Scriveva nel maggio del 1944. “Ci siamo trovati poveri, stanchi, disorientati come prima, come sempre purtroppo. E buon per voi che la irrefrenabile vita dello spirito abbia continuato a svolgersi sotterranea, riempiendo il vuoto che il nuovo artificio delle parole andava scavando nel vecchio vuoto restato incolmato. Quel tanto d’Italia che oggi è vivo, veramente vivo, è al di fuori di quella formula goffa e la sdegna. Questa è l’Italia vera che risorge a fatica, ma sicuramente, e noi dobbiamo essere con essa, se vogliamo salvare il patrimonio dei nostri ideali nazionali e trovare nel mondo la nostra strada distinta e pur corrente armonica con quelle percorse dagli altri popoli“.

Emerge Moro in una delle sue caratteristiche principali e cioè l’essere un uomo di cultura, filosofo della politica e del diritto, intellettuale osservatore delle cose degli uomini (è evidente in questo l’influenza del personalismo francese di Maritain) e di ciò che si muove nella società.

Pur “scrollando” il peso della scelta e del consenso totalitario dalle spalle dei soli cittadini italiani Moro non era per nulla indulgente verso le aspettative future. Avvertiva, infatti, con modi mai bruschi e diretti, ma per questo non meno netti, che la democrazia era, anche, fatica (oltreché gioia data dalla partecipazione) perché non si trattava di un semplice richiamo a costruire architetture esterne, dalla bella e armoniosa perfezione stilistica, bensì di un faticoso lavoro su se stessi, di uno scavo interiore, della capacità di mettersi a nudo e di mettere in gioco le proprio certezze per cambiarle, in profondità, quasi in modo radicale. Rifletteva nel giugno del ’44: “Agli stanchi ed ai superficiali bisogna dire subito di non illudersi che possano domani bastare all’Italia l’ordine e la giustizia regalati dall’alto; ché son queste cose da conquistare mediante atti di libertà e quindi conflitti di libertà contrastanti fra loro. Ciò può essere scomodo per chi ritenga più importanti altre occupazioni, ma è civile ed umano. È questione di responsabilità. E tutte le responsabilità si portano con fatica, perché la vita non è mai cosa semplice e chiara ma perenne conquista, che superi la tentazione dell’inerzia e del dolore, per ritrovare, nella gioia, la stessa possibilità di vivere. Ma non si aspetti che i partiti facciano tutto; ma non si riduca la loro vita alle attività dei quadri dirigenti; ma non si impoverisca questo urgere grave e complesso di problemi spirituali nello schema di uno squadrato programma. Il partito nasce dal dolore, dall’amore, dal proposito di bene dei singoli e si nutre di essi costantemente. Nessuno creda, dopo aver dato una adesione, che il suo compito sia assolto. Continui invece con pazienza l’umano lavoro di esame di sé e degli altri, studi la vita e la storia, domandi chiarezza di idee alla sua intelligenza operosa e forza di vivere e lottare alle proprie risorse morali. La vita continua ad impegnare, anche quando l’iniziativa è presa dai responsabili. Questo è momento gravissimo che impone a tutti la più ricca pienezza di vita e perciò di pensiero, di interessamento, di amore ed esclude che ci si possa sentire sostituibili o sostituti. Chiunque ha una fede, chiunque ama la vita e la vuole vedere più buona, chiunque è nel solco ideale della nostra storia, offra senza esitazioni di sé, generosamente. Forse questo umano personale lavoro gioverà a fare trovare l’unità degli spiriti“.

Di fronte a queste parole ci si potrebbe fermare, sentendosi come dei nani sulle spalle di giganti. Nulla si può aggiungere, infatti, a mio parere, a questa prosa appassionata, densa e intelligente. Perché essa riassume il senso di una vita e di un impegno, disegnando, al contempo, un progetto di paese e di impegno politico-partitico inclusivo, responsabile, umano.

Secondo Moro, tra l’altro, per avvicinarsi il più possibile a tale risultato, occorreva vivere la politica, oltre la sua dimensione partitica e istituzionale. Non isolandosi, ma comprendendo che quella esperienza andava fatta come una parte del tutto, non come qualcosa di esclusivo e totalizzante. È un pensiero tipico dei giovani cattolici che si affacciavano alla politica e all’impegno civico in quegli anni (penso a Dossetti, che lo preciserà meglio anni dopo, o a Sergio Paronetto). Anche perché il modo con cui il fascismo aveva di fatto “preso” e “schiacciato” con violenza, e con facilità, la politica democratica dell’Italia liberale, aveva generato, nei più giovani, una sorta di “pregiudizio” negativo su tutta una stagione e sulla politica, come esclusivo confronto, troppo spesso esclusivamente politicista, fra partiti. Per ricostruire quindi un vivere democratico, pienamente antifascista (su questa impronta Moro era, e sarà negli anni, sempre convinto e deciso) più si lavorava in profondità, più si poteva avere la speranza di realizzare qualcosa di maggiormente duraturo di una semplice sistemazione che riproducesse un modello già noto. E per farlo si poteva ripartire dalle cose minute, dalla quotidianità, inquadrata, per giunta, secondo diritti e doveri, allontanando ogni mistica, di qualsiasi genere. Perché il totalitarismo era entrato in questa dimensione, quotidiana e giuridica insieme, adulterandola e falsandone i fini ultimi e gli scopi originari. Scriveva nel marzo del 1945: “sono ancora aperte e fanno male le ferite che ci sono state inferte dalle mistiche politiche, le quali hanno sempre buon gioco con le folle e soprattutto con le folle esasperate che accettano, per vivere, qualunque promessa di redenzione. Di redenzioni invece ce n’è una sola e passa per vie difficili e tortuose e richiede, per verificarsi, un estremo impegno che sconvolge tutta la vita. Una redenzione che riconosce doveri, prima di accampare diritti, per poter accampare diritti

Soltanto il rinnovamento della persona, soggetto per nulla secondario rispetto alle esigenze delle istituzioni e dello Stato, secondo la migliore tradizione del personalismo cattolico e cristiano, ma forte delle sue “originarie” virtù, e dei suoi diritti-doveri, poteva ridare al paese quella dimensione democratica e libera (che definirà, nel settembre ’45, in termini di “tormentato e misurato umanesimo“) che in qualche misura le spettava. Ma soprattutto poteva aiutare a porre quest’ultima su basi solide, non costruite sulla sabbia di un rapido consenso che ritraesse sistemi già visti e che per questo esponesse il fianco del vivere civile a facili assalti in grado di sovvertirlo come avvenuto negli anni ’20 e ’30 del Novecento.

Il libro di D’Ubaldo, curato dall’autore con acribia e attenzione tramite delle brevi sinossi del contenuto dei singoli articoli, è uno strumento utile e prezioso in quanto ci restituisce un Moro giovane ma attento alle vicende politiche e sociali del paese: rigoroso nell’analisi, ma sensibile nel proporre soluzioni, nel suggerire percorsi; rispettoso delle differenz, ma non afasico rispetto alla propria formazione e ai propri ideali; comunque proteso verso la costruzione di una democrazia e di una libertà vera per il paese, cristianamente ispirata ma non ferma in un sussulto identitario; attento alle esigenze della Chiesa, ma altrettanto pronto nel perimetrare i campi dell’azione politica rispetto a quella religiosa soprattutto se unicamente “temporale”; predisposto principalmente al dialogo e al confronto, come virtù principale della costruzione democratica e libera dell’Italia avendo la persona come soggetto principe, nei suoi pregi e virtù, nei suoi diritti e doveri, della ricostruzione post bellica.

Leggendo il testo una certezza si fa largo. La morte di Moro ha privato questo paese, in modo tragico, di un intellettuale, di un politico, di uno statista, ma, più ancora, e in modo forse irreparabile, di un padre della Repubblica.

 

Luigi Giorgi

One Comment

  1. Grazie. Una riflessione molto bella e sempre attualissima.

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