I due obbiettivi del referendum “costituzionale”

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Sono in quattro i convocati allo stesso tavolo per confrontarsi sulla riforma costituzionale, due per il sì e due per il no. Non succederà spesso, per questo dobbiamo essere grati a quelli, il sindacato della Cgil in primo luogo, che si sono cimentati in questa impresa. A Trento trovo la Sala Rosa affollata, e infuriata negli applausi e nei dissensi. C’è da essere preoccupati del clima con cui ci avviciniamo al “giorno del giudizio” d’autunno. Non è questione di ceto politico, di Giorgio Tonini e Sergio Fabbrini da una parte, di Felice Casson e Lorenza Carlassare dall’altra. La divisione è accesa proprio nell’area democratica e di sinistra della società, fra chi ritiene necessario, “un’urgenza”, modernizzare la macchina della Costituzione, e chi vi vede un imbroglio, “un pericolo”. E’ questo il marchio che affibbiamo ai dilemmi   fra un parlamento “bi- o monocamerale”, e fra un sistema elettorale “proporzionale o maggioritario”.

Ho insegnato per una vita la Costituzione ai giovani, illuminato da “Cittadini del mondo”, il libro di educazione civica scritto da Ernesto Balducci e Pierluigi Onorato. La ho imparata con gli studenti, perché all’università nei primi anni sessanta non mi era stata insegnata. “Tutto è politica”, mi dicevano i giovani dai banchi del ’68. Poi alla politica si avvicinarono sempre più a fatica, dovendo vincere l’indifferenza crescente nella società. Cominciavamo dall’ultima pagina, in cui a firmare la Costituzione erano Enrico De Nicola, Presidente della Repubblica, Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente, Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio dei ministri. Erano lì a rappresentare insieme le culture che avevano sconfitto il fascismo, orgogliose, e gravate di ritardi e di colpe: quella liberale, quella di sinistra, quella cattolica. Un “patto” fra forze diverse, che si legittimavano reciprocamente, pronte a sfidarsi nei conflitti  a cui l’era della democrazia le stava chiamando. Le legava l’unità nei valori di fondo della Legge fondamentale dello Stato, una fiducia capace di sopportare le diversità nell’uso della macchina costituzionale. “La politica siamo noi, in quanto esistiamo al plurale”, scrisse per tutti Hannah Arendt.

Settant’anni dopo avvertiamo uno scarto abissale, quasi un insuperabile canyon, fra il clima di allora e quello di oggi. La proposta di riforma di oggi è intestata a una sola firma, quella del capo del governo Matteo Renzi. E’ una debolezza oggettiva, da riconoscere, al di là delle responsabilità. Chi poi questa riforma combatte la accusa di tradimento del vincolo costituzionale, di affossare la democrazia. Questo è oggi il rapporto, in Parlamento, fra le forze politiche in cui si è rivelata divisa la società italiana alle ultime elezioni. Per questo, attorno al tavolo, la Cgil e l’Anpi avrebbero dovuto convocare anche la destra (a trazione leghista) e i Cinque stelle. A me, “democratico”, fa bene sentire la loro voce in presa diretta, di quei corpi massicci che saranno i veri vincitori o sconfitti al referendum.

C’è di peggio. La società italiana, i giovani soprattutto, oggi soffre la malattia dell’indifferenza alla politica, al sentirsi “noi in quanto esistiamo al plurale”. L’astensionismo ne è il sintomo più evidente. Gli obbiettivi da perseguire nel referendum sono quindi due. Quello particolare, che ci divide. E’ legittimo esibire l’urgenza della riforma, ed è legittimo denunciarne i pericoli. Ma c’è un obbiettivo più generale, che ci dovrebbe stare più a cuore: che sia l’occasione per entrambi gli schieramenti, nelle parole e nei gesti delle forze democratiche, di sinistra innanzitutto, per riavvicinare i giovani alla politica, ai conflitti e alle mediazioni dotati di senso. Si tratta di ricostruire, come siamo capaci, quel tessuto costituzionale che ci permette di pensare e di agire politicamente. Sapendo che è grigia la democrazia.

Una volta non pensavo così. Oggi credo di essere maturato quando al primo turno elettorale pretendo di “scegliere” il migliore, e al secondo, se i miei concittadini mi costringono al ballottaggio, mi accontento di “eliminare” il peggiore. E’ questo il prezzo che sono disposto a pagare, perché la sera, chiuse le urne, possa sapere chi ha vinto e chi ha perso, chi governerà e chi farà opposizione. E non incomincino invece le “trattative”.

Abbiamo bisogno di essere rappresentati, ma di decidere anche.

 

Silvano Bert

mail: silvanobert43@gmail.com

Trentino, 15.3.2016

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