Da dove ripartire

| 5 Comments

Da dove ripartire, dunque, per tentare quella “profonda opera di ricucitura della società, una manutenzione straordinaria”, di cui parla Mario Calabresi nell’editoriale di Repubblica del 3 dicembre? Sconfortati o gioiosi per il risultato elettorale del referendum, non si può non costatare che la lacerazione prodotta da un confronto aspro e a volte verbalmente violento va ricomposta e lenita, proprio come si fa con le ferite, per evitare che il pus antidemocratico produca danni irreversibili. È il momento di richiamare a un impegno profondo e diffuso tutti coloro che credono ancora nella possibilità che questo Paese abbia una forma democratica, inclusiva, solidale ed equa. Basata sulla politica, una politica non considerata come forma inevitabilmente perversa di gestione del potere, ma come la “più alta forma di carità”.

Un progetto talmente impegnativo che non basta la buona volontà o qualche dichiarazione di facciata, non astratte proclamazioni di principi, ma percorsi o processi basilari per far comprendere come il tessuto democratico di un paese, la stoffa, sia essenziale per la stessa qualità ordinaria della nostra vita quotidiana. E da curare con delicatezza e passione. Proviamo perciò, tutti, a costruire un pacchetto di proposte e a lavorarci su nei nostri ambiti, radicati sul territorio, nei diversi ambienti internet, nei luoghi di lavoro e nella Chiesa, per strada e nei circoli. Qui provo ad avanzarne alcune, consapevole della limitatezza e parzialità, ma intimamente convinto che è dalle piccole cose che si costruiscono le grandi.

Proverei, in questa sede, cioè, a porre l’accento più sulle policies che sulla politics, sulle cose da fare più che sui rapporti di forza, troppo complicato e rischioso appare il secondo terreno, se non addirittura controproducente, per tentare un rasserenamento degli orizzonti, in vista di un lavoro comune nell’interesse del Paese. Non trascuro l’importanza del “chi si allea con chi”, o delle strategie sulla legge elettorale da applicare, o delle coalizioni da mettere in campo nelle prossime elezioni. Ma da lì ho l’impressione che non si riparta. Anzi, si rischia di tornare indietro.

Partirei, invece, intanto dalla necessaria moderazione del linguaggio: seppure sembri proprio una cifra impossibile a cui restituire dignità, per quelli che hanno paragonato i sostenitori del SI a dei serial killer, e adesso rilanciano chiamandoli “bari” e quant’altro. Ma è proprio così difficile capire che lo sfascio anche verbale non può che produrre odio e discredito per le istituzioni? Bisogna ricordarsene nella prossima campagna elettorale, per non cadere nella tentazione uguale e di segno contrario e per educare (è ancora utile e fattibile usare questo atteggiamento positivo? Penso di sì) il cittadino ad una modalità diversa e più costruttiva. A costo di perdere in capacità seduttiva e voti.

Secondo: ripartiamo dalla partecipazione. Per nulla scontata di questi tempi, con un’alta affluenza alle urne e il moltiplicarsi di incontri e dibattiti sul territorio per parlare di Costituzione, istituzioni, politica e riforme. Non facciamo perdere nelle prossime settimane il rinnovato interesse, seppure finalizzato al voto diretto spesso più contro che per; un patrimonio che può ridare solidità ai cardini della nostra democrazia. In particolare per i giovani, che hanno votato in modo quasi compatto contro la legge Renzi-Boschi: ripetere come si sente spesso, che tanto a loro della politica non interessa affatto è solo un alibi per non proporre nulla. Costruiamo anche qui processi ridando fiato – se si vuole – anche a quelle scuole di politica tanto in voga in altri tempi e poi abbandonate come desuete per il semplice fatto che non conquistavano più i numeri dei primi fasti.

Ancora. Terzo, ma legato al precedente da alcuni “dettagli” che la riforma aveva tentato di introdurre con l’inserimento stabile in Costituzione ma che ora, pur bocciati, possono comunque rientrare sul terreno della discussione “riconciliativa”, almeno nel nostro mondo cattolico: i principi di trasparenza nella Pubblica amministrazione e di valutazione dell’impatto delle leggi nelle politiche pubbliche, e la possibilità di proporre iniziative di legge popolare (rimaste le 50mila firme necessarie, ma senza la possibilità di influire sulla decisione parlamentare). Possono essere base di una prospettiva innovativa per il futuro del “fare politica” (con qualsiasi colore), come campo concreto per formare i giovani alla partecipazione, allo studio delle norme, delle regole, della pazienza e fatica quotidiana per cercare, con le mediazioni necessarie, il consenso e il successo per i propri obiettivi.

Infine, aprirei un confronto ampio, collettivo, di proporzioni le più vaste possibile su identità, ruolo e funzioni dei partiti. Senza avere paura di scandalizzare o di ricevere rifiuti pregiudiziali da parte di chi ormai li considera una sorta di associazioni a delinquere legittimate. La Costituzione è stata difesa, vero? Bene: ora applichiamo l’art. 49, ed esca allo scoperto chi non vuole farlo e dica perché. Si parli, nelle sedi più disparate, di scelta delle candidature, di primarie, di leadership, di come elaborare i programmi, di come vincolare i rappresentanti al mandato (è stato proposto di costituzionalizzare il vincolo), di Statuti, di rendicontazione, di bilanci e di quant’altro. E soprattutto della democrazia nei processi decisionali interni, che sola può garantire – poi – la democrazia in quelli esterni, una volta “preso” il potere. Ogni riferimento non è puramente casuale.

E’ evidente che, nella prossima campagna elettorale, questi temi bruceranno nelle mani di chi sarà coinvolto direttamente. Alcuni di questi (vedi primarie) conteranno molto nel peso delle future scelte delle politics, ossia dei rapporti di forza. E non solo nel PD.

Ma sebbene le campagne elettorali – forse – non siano proprio il momento migliore per “fare politica”, paradosso per sottolineare come l’evidente intento della conquista di numeri e posizioni condizioni la libertà e trasparenza dei progetti, comunque bisogna subito, ora, dare l’idea che si riparte, per non cedere non tanto a tendenze populiste, che – come si dice in alcuni casi – a volte possono anche essere produttive, ma a quelle che dal populismo fanno derivare, naturaliter, la proiezione dell’uomo solo che comanda per risolvere i problemi che le “incertezze” della democrazia non possono, non sanno o non vogliono risolvere. Quel volto peggiore del populismo che l’Italia ha già conosciuto, con formule e intensità diverse, e che non si deve più rivedere.

In quest’orizzonte noi cattolici democratici, insieme, sebbene con opzioni diverse, possiamo dire ancora delle parole comuni e che si capiscano in maniera chiara?

Vittorio Sammarco

5 Comments

  1. Valutando, a posteriori e con maggiore razionalità, la campagna referendaria sulle modifiche della Costituzione e i risultati del voto che ha visto prevalere il “no” con il 60% dei voti contro il 40% del “sì” è molto difficile dire chi ha vinto. Certamente non ha vinto Salvini, ma neppure Grillo e tanto meno Berlusconi, per non parlare della galassia di Sinistra Italiana e della minoranza del PD che hanno votato “no”. Questo poliedrico schieramento ha rappresentato i 4/5 delle forze e movimenti politici e, dunque, la vittoria del “no” è una vittoria condivisa tra tutti coloro che vi hanno partecipato. Solo il tempo ci dirà se quella che ha vinto è anche una coalizione politica e di governo. Sicuramente Renzi ha perso, ma il 40% dei voti per il “sì” è in un campo un po’ più omogeneo di quello del “no”.
    Questi sono i dati che emergono dal voto referendario e sui social media, oltre ai commenti sul voto, ci sono un’infinità di consigli gratuiti nonché interessati, indicazioni, raccomandazioni, pareri, opinioni, idee, suggerimenti, proposte, sul cosa fare, sul come affrontare e risolvere i problemi politici e di governo creati dall’esito referendario.
    Per carità, in termini democratici tutto pienamente legittimo anche se, con una certa dose di ironia, i destinatari di tali consigli potrebbero citare il vecchio detto “non datemi consigli perché so sbagliare da solo”. Se tutto questo manifestare il proprio pensiero e le proprie idee è democratico, non riescono a comprendere perché Umberto Eco a proposito dei social media abbia detto: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli”.
    Visto che Umberto Eco se la prende con gli “imbecilli” suggerisco la lettura di un piccolo libro di Maurizio Ferraris “L’imbecillità è una cosa seria”, Ed. Il Mulino, anche per ricondurre alla reale dimensione la grande massa di costituzionalisti e strateghi della politica, senza escludere chi scrive, che la campagna referendaria prima e l’analisi del voto poi hanno posto in evidenza.

  2. Grazie Vittorio per il tuo articolo, che condivido.
    Invio, con un po’ di titubanza, questo contributo, purtroppo molto lacunoso e molto lungo, ma tant’è, se aspettavo ancora diventava non più “a caldo”…
    Un abbraccio, davvero sincero, a tutti e a tutte: che abbiano votato sì, no o scheda bianca.

    COSA C’E’ DENTRO L’ITALIA DEL NO?

    Questa è una riflessione a caldo, elaborata, nei tempi possibili, in questi tre giorni dalla data del referendum del 4 dicembre 2016.
    E’ molto lunga, mi dispiace.
    Riflessione parziale (e di parte), passibile di correzioni di tiro, non per tatticismo ma perché il dibattito serve se si è disposti ad ascoltare e anche ad accogliere le opinioni degli altri.

    Il voto con cui si è espresso il popolo italiano merita il massimo rispetto e la massima considerazione.
    I primi a dover riflettere sul significato del voto e sugli errori commessi (perché, quando si perde, qualche errore lo si è commesso per forza) sono ovviamente Renzi, il PD e i sostenitori del Sì.
    Ed è comprensibile la soddisfazione di chi ha fatto campagna per il No, per una ragione o per l’altra, visto l’ampio risultato ottenuto.
    Detto questo, mano a mano che passano le ore e i giorni e si analizzano caratteristiche e distribuzione del voto, emerge che buona parte dei voti contrari alla riforma costituzionale (in ogni caso, la parte decisiva) non sono collegati al merito della riforma stessa ma alla volontà di punire Renzi e il suo Governo. Affermare che questo slittamento di significato sia stato dovuto anche al modo con cui Renzi ha affrontato la campagna elettorale (la famosa “personalizzazione” che è diventato un mantra in questi mesi) rappresenta qualcosa di vero che però non tiene conto di un dato di realtà: i sondaggi erano sfavorevoli già mesi fa e assodato che anche senza un suo impegno diretto la sconfitta avrebbe comunque significato la fine del Governo (e risulta davvero difficile pensare il contrario, salvo voler fare dell’accademia), Renzi non aveva che due possibilità: mantenere un profilo basso per evitare l’eccesso di personalizzazione, avviandosi però con tutta probabilità verso una sicura sconfitta; o tentare di mettere tutto il peso della sua leadership e della sua capacità comunicativa per cercare di recuperare il più possibile, magari arrivando a strappare il risultato negli ultimi metri. Non solo per il carattere del personaggio, quindi, ma anche per le condizioni date, la scelta di un impegno totale diventava difficilmente evitabile, anche se questo ha avuto come conseguenza inevitabile una forte accentuazione della sovrapposizione (comunque esistente) tra voto sulla riforma e voto sul Governo.

    Se il no avesse vinto soprattutto per un reale e diffuso dissenso sulla proposta di riforma, ci sarebbe da fare un certo tipo di ragionamento. Ma se le analisi confermeranno che ha inciso in modo determinante la volontà di “mandare a casa Renzi”, al di là del merito della riforma stessa, occorre cercare di capire per quali ragioni ciò è avvenuto, oltretutto senza, al momento, vere prospettive alternative (come poteva essere ai tempi dello scontro tra Ulivo/Centrosinistra e schieramento berlusconiano).
    Si possono considerare i contenuti e gli effetti delle singole leggi promosse dal Governo e approvate dal Parlamento, alcune delle quali criticate da una parte della popolazione. Si può ragionare sulla simpatia o l’antipatia di Renzi, sul suo decisionismo, su quella che è stata definita “arroganza”, sul suo stile comunicativo, sulla sua capacità o meno di rimanere in sintonia con l’elettorato. Tutte cose che meritano attenzione e hanno certamente pesato.
    Ma la mia impressione è che ci sia uno scarto, un’eccedenza tra quello che Renzi ha rappresentato, fatto, comunicato e la durezza con cui è stato giudicato (anche prima del referendum) e “mandato a casa”.

    Un’eccedenza che dovrebbe seriamente preoccupare anche chi ha votato no per ragioni collegate al merito della riforma e far riflettere anche chi, pur dotato di grande esperienza, intelligenza e preparazione, ha parlato con insistenza di “rischio di svolta autoritaria”, accusa peraltro fatta propria anche da qualcuno che non aveva certo titolo per portarla avanti.

    Ho l’impressione che si siano incanalati in questo appuntamento sentimenti che vanno al di là del giudizio politico sulle realizzazioni del Governo o sulla figura del Presidente del Consiglio.
    C’è un sentimento di rabbia, insofferenza, risentimento, paura, frustrazione che attraversa oggi nel profondo la società italiana, così come altre comunità occidentali. I principali motivi di tutto questo sembrano noti: la crisi che non finisce, la disoccupazione e la precarietà, la paura dei migranti, il senso di insicurezza, le critiche alla politica e all’UE e molti altri problemi di cui sappiamo.

    Ma sono gli unici motivi o c’è dell’altro? Ne parleremo fra poco.

    A Renzi si può rimproverare non tanto il fatto che lui abbia cercato di vedere il bicchiere mezzo pieno e di scuotere con l’ottimismo da una certa tendenza vittimistica che a volte ci prende, quanto di non aver detto con abbastanza chiarezza che il cammino per “uscire dal tunnel” sarebbe stato lungo e faticoso e che le risposte immediate, anche quando giuste, non sempre avrebbero potuto dare frutti nel breve periodo, anche perché c’è intorno (cioè dentro…) un mondo in ebollizione ( Però, siamo sinceri: quale leader politico – non tecnico – si è mai acconciato volentieri a presentare ai cittadini una prospettiva incerta e difficile?)

    A tutte le persone che hanno a cuore il bene comune e in primis ai politici spetta il compito di interpretare questa rabbia che attraversa il Paese, che per fortuna (se non in casi sporadici) non si è trasformata in violenza fisica ma che si esprime invece – e in modo allarmante – con la violenza verbale.

    Renzi, il suo Governo, i suoi Ministri e Ministre sono stati oggetto di un’ondata di disprezzo che difficilmente ha avuto paragoni nella nostra storia recente. So di urtare qualcuno e me ne scuso, ma l’affermare che il problema ha riguardato “entrambe le parti” è politicamente corretto ma – per quello che ho potuto vedere io – non corrispondente alla realtà. Se è vero che in una campagna elettorale i toni si possono anche fare aspri e duri e che anche dal fronte del Sì sono arrivate modalità di comunicazione non condivisibili, la quantità di aggressività verbale scaricata nei confronti di Renzi e del suo Governo da parte di molti (non tutti, certamente!) sostenitori del No mi è parsa di gran lunga maggiore rispetto a quella della parte avversa.

    Userò un termine forte ma non ne trovo uno più adatto: per una parte della popolazione italiana c’era bisogno di un capro espiatorio (nel suo senso tecnico).

    Del resto, lo stesso Renzi – non so quanto involontariamente – si è autorappresentato così, nella notte della sconfitta, dichiarando pubblicamente di assumersi tutte le responsabilità, quando sappiamo bene (e lo sa anche lui) che, certo, in prima fila c’è il o la comandante, ma se non ci sono anche altri intorno, nessuna impresa da soli è possibile, sia nel bene che nel male.

    Vorrei a questo punto chiarire una cosa. Quando parlo di rabbia e di capro espiatorio non intendo usare questi termini in senso accusatorio verso qualcuno o, in parallelo, “vittimistico” rispetto a chi è stato “oggetto” del “sacrificio”. Né intendo queste categorie come “voto di pancia” o “di protesta” (in senso dispregiativo) contrapposto a “voto di testa” : la rabbia, la “pancia”, la protesta, i capri espiatori e in generale emozioni e sentimenti, fanno pienamente parte della dimensione politica (a volte in modo eminente), incidono sulle decisioni e gli orientamenti e guai a non considerarli. Altrimenti non capiremmo nulla di molti fenomeni del passato lontano e recente. Il problema, semmai, è come lavorare perché queste dimensioni non superino una certa soglia, non diventino il metro fondamentale e unico di giudizio a discapito di altre.

    Non mi sembra quindi che abbia vinto la Costituzione contro Renzi, come ha titolato un quotidiano.

    Il fatto è (tornando alla domanda di qualche riga sopra: “Ma sono gli unici motivi o c’è dell’altro?”) che questa rabbia italiana, che ha pesato in modo determinante per la vittoria del no (aggiungendosi ad altre motivazioni politiche e di merito) sembra eccedere, anche qui, i singoli problemi che pure ci sono. E’ come se l’attesa frustrata di quello che ci si aspetta e ancora non c’è avesse il sopravvento su quello che già c’è e che è possibile avere in questo contesto. E’ come se ci si aspettasse da un momento all’altro un miracolo che non arriva. Ed è disperante.

    E’ su questi aspetti che bisogna (tutti) riflettere, ma il cammino per arrivare a meglio distinguere tra attese ed illusioni è lungo e complicato. Certamente ciò che si agita nell’animo di molti italiani e italiane potrebbe premiare, ben oltre i propri meriti, chi in questo momento promette un Nuovo Inizio in cui ogni lacrima sarà asciugata e ogni problema risolto, ergendosi a difensore della Democrazia con la D maiuscola, purchè essa non riguardi il proprio movimento, chi propone una piattaforma in cui sono mescolati valori e obiettivi non coerenti fra loro, ma che come la pozione magica di Panoramix, renderà invincibili.

    Ma queste stridenti contraddizioni non sembrano, ahimè, preoccupare più di tanto l’opinione pubblica e, in particolare, i giovani. Pur dovendosi riconoscere l’entusiasmo, la buona fede e la sincera voglia di impegnarsi di tanti: energie che le forze politiche “tradizionali”, purtroppo, non hanno finora saputo intercettare e valorizzare.

    Last but not least, mi sembrano doverose alcune parole sulla lacerazione che si è creata in una parte di quell’area del cattolicesimo italiano che – per capirci – si riconosce nel campo di sinistra – o centrosinistra come dir si voglia. Credo che nel complesso il dibattito sia avvenuto in un clima di correttezza e serenità, con qualche punta di asprezza qua e là, rimasta però isolata. Si potrebbe dire che non poteva che essere scontato che fosse così, ma in ogni caso è giusto prenderne atto positivamente. Siamo ancora qui, un po’ provati, ma – credo – tutti desiderosi di continuare a dialogare, ad ascoltarci, a costruire.

    Credo però che sia opportuno riprendere in mano alcuni dei temi che il dibattito sul referendum ha suscitato. La riflessione, ad esempio, sul significato presente e futuro della democrazia, in particolare della sue modalità di funzionamento istituzionale, andrebbe ripresa se non altro per rimettere a fuoco riferimenti e concetti che ricorrono anche nel nostro piccolo – ma qualitativamente alto – dibattito.

    Infine, c’è da chiedersi con urgenza da dove ripartire per costruire una proposta politica che non sia in partenza velleitaria e minoritaria.

    Sandro Campanini

  3. Condivido pienamente l’intervento di mio fratello Sandro.
    Aggiungo quanto segue.
    1. sono sempre stato pessimista sull’esito del referendum (e personalmente abolirei i referendum: sono una forma falsa di democrazia diretta, perchè quasi sempre l’elettorato si esprime su “altro” rispetto al quesito dei testi, spesso molto tecnici – ma questa è una mia personalissima opinione del tutto controcorrente, Rouseeau non mi è mai piaciuto)
    2 la sconfitta viene da lontano, personalmenteio ero più interessato alle riforme che al governo Renzi (pur essendo un renziano), ma i politici e gli italiani NO
    3. Napolitano doveva dimettersi DOPO l’approvazione della legge Boschi in prima lettura (ossia dopo la IV votazione), a maggio, anziché a gennaio; la rottura del patto del Nazareno non ci sarebbe stata, e comunque a giochi erano fatti, non avrebbe provocato gli emendamenti di Calderoli, la votazione notturna, e conseguentemente una campagna elettorale molto livorosa, e forse evitato anche la scissione nella sinistra PD (che è emersa solo dopo la rottura del patto del Nazareno).
    4. Il governo doveva stare fuori dalla campagna referendaria (anche se la vittoria del NO avrebbe portato comunque alle dimissioni, vedi Cameron in GB) , Renzi non doveva far raccogliere le firme per il referendum (che si sarebbe tenuto comunque), la data doveva essere fissata ad ottobre (come nel 2001) e la campagna molto più corta… O addirittura arrivare a votare la riforma alla fine della legislatura (come nel 2001), in modo da de politicizzare il referendum.
    5 l’italicum andava cambiato subito, a luglio – l’accordo con Cuperlo è arrivato a sondaggi oramai evidenti. E paradossalmente è più difficiel cambaire l’italisum adesso dopo la vittoria dei No che prima….

    Ma questo è il senno di poi.

    All’interno del cattolicesimo democratico sono emerse le stesse tensioni presenti nel centro sinistra:
    simpatia o antipatia per Renzi
    difesa (a volte nostalgica) della vecchia costituzione
    discussione molto tecnica su (presunte) manchevolezze del nuovo testo, in attesa di un testo di riforma bello, chiaro e condiviso (e quando mai l’avremo?),

    Continuo ad essere molto pessimista, entriamo nell’epoca di Trump, credo che alle prossime politiche Lega e 5 stelle insieme arriveranno al 60%…. con buona pace di chi ritiene che la vittoria dei NO sia una vittoria della sinistra (a Gorino i NO hanno avuto il 71%)

    Guido Campanini

  4. 4 dicembre
    Il 4 dicembre 2007 appare su “La Repubblica” un’ intervista di Massimo Giannini a Fausto Bertinotti, presidente pro tempore della Camera dei deputati , così intitolata: “Il progetto del governo è fallito…”.Il governo è quello di Romano Prodi, insediatosi nella primavera del 2006 grazie alla striminzita vittoria elettorale. Il margine risicato (poco più di 20000 voti, se ben ricordo) non impedisce alla maggioranza di far eleggere propri rappresentanti alle prime tre cariche istituzionali dello Stato: chi voglia informarsi sulla breve e tormentata stagione della XV legislatura può leggere le pagine documentate di Rodolfo Brancoli, uno tra i più stretti collaboratori di Prodi (Fine corsa. Le sinistre italiane dal governo al suicidio, Garzanti, 2008).
    Nell’intervista Bertinotti tocca vari punti della situazione economica e sociale del paese; si sofferma poi sull’esigenza di riforma più generale esplicitando il giudizio sintetizzato nel titolo del quotidiano attraverso alcuni passaggi che preferisco riportare in un florilegio di “virgolettati” per me significativi e, spero, fedeli ai concetti espressi: “una stagione si è chiusa”, “si è affermata una larga condivisione su due punti essenziali. Primo: l’attuale sistema istituzionale ed elettorale è un fattore di riproduzione della crisi politica”, “tutto dimostra che il bicameralismo perfetto non funziona più”, “maggioranze coatte (centro sinistra e centrodestra si presentarono accorpando 35 liste in totale: n.d.a.) buone per vincere ma non per governare”. Nel finale Bertinotti esprime la preferenza per una legge elettorale proporzionale e l’esigenza di confronto con Berlusconi; infine adatta a danno del governo un giudizio fulminante di Ennio Flaiano sul poeta Vincenzo Cardarelli .
    L’intervista viene criticata per metodo (inosservanza della neutralità, anche soltanto percepibile, richiesta ai titolari di cariche istituzionali) e per contenuti (Eugenio Scalfari nell’editoriale del 7 dicembre successivo ribalterà l’accusa di inconcludenza riformatrice rivolta al Governo, addebitandola alle divisioni intestine ai partiti di governo e alla sinistra in particolare: basti notare il plurale del soggetto contenuto nel sottotitolo del libro di Brancoli, sopra citato).
    Il finale di quei giorni è scandito nei miei ricordi da “il manifesto” , che, con un tono apprezzabile, pubblica a metà di quel turbolento dicembre in prima pagina l’articolo di fondo “Nella rete di Berlusconi” e la foto delle famose pecorelle del vecchio “intervallo” televisivo con la scritta sovraimpressa seguente “le riforme riprenderanno appena possibile”: appunto.
    rd

  5. “…. la possibilità di proporre iniziative di legge popolare (rimaste le 50mila firme necessarie, ma senza la possibilità di influire sulla decisione parlamentare) ….”
    Su questo punto mi permetto di suggerire una modestissima proposta di modifica dei regolamenti parlamentari di Camera e Senato che reciti più o meno così: “Entro 6 mesi dalla presentazione i disegni di legge di iniziativa governativa debbono essere messi all’ordine del giorno delle competenti commissioni parlamentari. Entro 2 anni i testi eventualmente emendati dalle Commissioni stesse, o in caso di mancato esame, i testi originali debbono essere posti in votazione nelle aule rispettivamente della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. ”
    Naturalmente i tempi indicati possono anche essere diversamente calibrati, ma questo è quanto si potrebbe fare a Costituzione invariata ed è esattamente quanto si sarebbe potuto fare in caso di approvazione della riforma (con l’unica differenza delle 150 mila firme).
    Se il pd vuol dare un piccolo segnale, potrebbe procedere in questo senso.
    Alessandro Messina

Lascia un commento

Required fields are marked *.