Introduzione

La Costituzione ci aiuta ad affrontare la crisi?

Ripartiamo dalla Costituzione. Un coordinamento di esperienze associative del cattolicesimo democratico che si ispira a «Costituzione, concilio, cittadinanza», non può che tentar di esibire perché quel riferimento è vitale per il futuro. L’idea è semplice: nella Costituzione c’è il nocciolo di un progetto politico vitale, che potrebbe reagire con grande efficacia di fronte all’attuale crisi dell’economia e della convivenza sociale.
La Costituzione non è, infatti, solo un meccanismo di regole per la convivenza. Delinea nella sua prima parte un orizzonte di valori che sta di fronte a qualsiasi politica come un’ispirazione e un richiamo. Per noi questo richiamo non è superato, non è ininfluente, non è generico, non è pericolosamente sorpassato perché «di ispirazione sovietica» (come qualcuno ha detto non troppo tempo fa). Il nocciolo del progetto costituzionale nacque in un momento piuttosto lontano da oggi: il dopoguerra quando si doveva uscire dalle macerie non solo del conflitto, ma della «grande crisi» del capitalismo degli anni Trenta. Per far questo, i padri costituenti delinearono un modello avanzato di Stato sociale, che non è né Stato minimo né Stato onnipotente ed intrusivo. E che apriva una strada non così peregrina, dato che il continente europeo nella sua parte più avanzata ha percorso faticosamente nei sessant’anni successivi proprio l’itinerario tracciato con quelle parole: con alti e bassi, certamente, ma con un’efficacia ancora a nostro parere indubbia.

Il «cuore ideologico» della Costituzione sta come è noto nell’intreccio tra l’art. 2 e l’art. 3. Cioè l’affermazione della priorità dei diritti personalistici individuali e comunitari rispetto allo Stato (con i rispettivi doveri): quindi una piattaforma insuperabilmente pluralistica ed escludente ogni «Stato etico» e padrone. Bilanciata, però, da un altrettanto radicale principio di solidarietà «politica, economica e sociale», non affidata soltanto alla buona volontà dei singoli, ma espresso nella formula programmatica con cui lo Stato si incarica di un compito di superamento dell’uguaglianza formale verso un modello di democrazia sostanziale (la «rimozione degli ostacoli» alla piena cittadinanza). Solo in questo nesso inscindibile prende pieno valore la fondazione della repubblica sul lavoro (art. 1) e discendono in chiave logica e politica il diritto/dovere del lavoro (art. 4), il diritto alla giusta retribuzione (art. 36), la tutela delle inabilità (art. 38), la libertà sindacale e di sciopero (artt. 39-40), la libertà di iniziativa economica connessa al possibile coordinamento ai fini sociali (art. 41), la promozione della cooperazione (art. 45), il favore verso la partecipazione dei lavoratori nelle imprese (art. 46), la progressività fiscale (art. 53). E sono solo alcuni spunti che potrebbero senz’altro essere arricchiti.

La domanda per il futuro è quindi semplice: questo insieme di princìpi sono ormai invecchiati, sterili, superati dai fatti, condannati a un ineluttabile oblio? Oppure costituiscono ancora un punto di riferimento solido, non perché delineino necessariamente specifiche politiche, ma perché impongono di orientare in qualche misura qualsiasi politica e quindi tutte le scelte della collettività in una direzione specifica? Certo la nostra risposta a questa domanda non implica una visione totemica della costituzione come se avesse già dentro di sé tutte le risposte, ma esclude anche una visione riduttiva che escluda qualsiasi pregnanza dei principi rispetto all’analisi e all’azione.
Quanto questo orizzonte è potenzialmente incisivo rispetto all’attuale situazione di crisi economica e sociale? E’ chiaro che la risposta a questa domanda non può prescindere da un’analisi su quello che sta succedendo nel mondo negli ultimi anni. Se siamo d’accordo che ci troviamo in qualche modo di fronte a una crisi «sistemica» e non contingente, dobbiamo orientare la ricerca culturale e politica in una direzione forte. Consideriamo, infatti, in crisi irreversibile non tanto «il» capitalismo (concetto e realtà troppo sfuggente e proteiforme per dirci qualcosa di utile rispetto all’agenda politica), ma una specifica forma del sistema economico di mercato, nata una trentina d’anni orsono dalla risposta data nei paesi occidentali alla crisi del fordismo degli anni Settanta: il modello cioè della globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia. E’ in crisi la forma di economia centrata sul dominio della finanza e della logica finanziaria nel sistema produttivo, che ha portato con sé fenomeni come la riduzione ad oltranza del lavoro, il ridimensionamento di qualsiasi forma sociale ed economica collettiva, la delocalizzazione produttiva nei paesi emergenti, la riduzione del valore aziendale alla dimensione immediata del rendimento borsistico, la riduzione dei poteri di controllo e indirizzo statuali, il dominio dell’utilitarismo, la mobilità estrema del capitale connessa alla difficoltà imposta al movimento degli esseri umani. Da questa crisi occorre ripartire e porsi la domanda su come ricostruire un’economia che crei benessere e qualità della vita. La tradizione europea dello Stato sociale e l’esigente spinta ispiratrice della prima parte della Costituzione repubblicana ci possono aiutare ad affrontare questa sfida?
Questa è la domanda che ci sembra di poter porre agli esperti, ai tecnici, agli economisti, agli studiosi della società, agli operatori economici, ai nostri politici e ai partiti (se ancora esistono). Su questo vorremmo chiamare molti saperi e svariate competenze a misurarsi. Con urgenza e con dedizione, all’altezza della difficoltà dell’impresa.

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