Allargare il campo del confronto sul centro-sinistra

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Il dibattito sul futuro del centro-sinistra nel nostro paese ha assunto tratti piuttosto curiosi. Mi pare del tutto chiaro che la questione chiave – in prospettiva elettorale – sia l’impossibile autosufficienza del Pd. Gli elementi sono chiari: dopo la scissione del partito e la sconfitta di Renzi al referendum di dicembre, il suo rilancio nelle primarie si è accompagnato allo stop della sua strategia di tornare presto al voto. Tutto ciò ha creato una impasse, in cui si è radicalizzata una certa distanza tra un’immagine assertiva e più o meno coesa del partito e una evidente restrizione del suo orizzonte di consenso esterno (come si è rivelato anche in occasione dell’ultima tornata di amministrative). È quindi surreale che si neghi il problema, dicendo che il dibattito sulle alleanze a sinistra non interessa l’elettorato, oppure la mitica “gente comune”. Infatti, può essere vero che la questione delle possibili alleanze sia in parte una specie di tecnicalità da risolvere tra gli addetti ai lavori, senza grandi clamori pubblici: una tecnicalità pure importante e collegata alla legge elettorale che verrà alla fine approvata. Su questo fronte, dopo tutte le giravolte degli ultimi mesi, sembra che stiamo andando comunque verso una base più o meno proporzionalistica. Il che condiziona le modalità del rapporto tra formazioni diverse e possibilmente vicine, incitando piuttosto alla competizione che alla convergenza, ma si tratta di problemi specifici da affrontare e risolvere se non si vuole andare a un fallimento globale.

Però, se è vero l’asserto di partenza dell’impossibile autosufficienza del Pd, la questione non è affatto solo tecnica, e anzi ha a che fare direttamente con le forme della comunicazione politica e del dibattito pubblico. Essa infatti nasconde (o implica) due temi più rilevanti ancora: il primo è quello della leadership e della candidatura alla guida del governo futuro, che non è tema banale una volta si esca dallo schema della coincidenza tra segreteria del partito maggiore e guida del governo (che non sempre tra l’altro ha portato bene allo stesso Renzi). Ma qui non vorremmo personalizzare il discorso.

Il secondo tema connesso è invece quello della linea politica, dell’asse progettuale attorno a cui ci si presenterà al paese con un progetto di governo. Ai miei occhi, è questione assolutamente ancora più rilevante, quanto paradossalmente poco sviscerata. Di questo bisognerebbe invece molto discutere, proprio per costruire un consenso solido possibile, o per mediare tra prospettive divergenti. L’attuale Pd, del tutto identificato con il suo leader, mi pare stia tendendo a mostrare un profilo politico e comunicativo piuttosto coerente attorno ad alcune scelte-chiave: un profilo che si può definire sostanzialmente tradizionale, di impianto liberista relativamente alla spina dorsale ideologica e di sapore centrista come messaggio politico-elettorale. Parliamo soprattutto della cruciale questione della politica economica. Mettete in fila scelte o programmi come l’eliminazione delle tasse sulla prima casa (Imu), valutabile in circa 4 miliardi; gli 80 euro in busta paga, costati 9 miliardi l’anno; il Jobs act, cioè politiche del lavoro basate fondamentalmente sulla decontribuzione per favorire la creazione di posti di lavoro (con l’investimento di circa 18 miliardi di euro); il ventilato fronte di discussione con l’Europa per ottenere un ritorno indietro dal fiscal compact, in modo da permettere un sovra-deficit fino al 3% annuo del Pil, e quindi liberare (si dice) addirittura 30 miliardi all’anno per ridurre le tasse. In sostanza, la somma di queste scelte o proposte orienta a tracciare un modello per affrontare la crisi economica imperniato su di un non modesto programma di iniezione di risorse nell’economia privata tramite la riduzione del prelievo fiscale. L’ipotesi è che questo si tradurrebbe in un rilancio di consumi e di investimenti e quindi di crescita e posti di lavoro.

Tendo a pensare – come molti autorevoli interpreti di queste dinamiche – che questa impostazione rischi di risolversi in una pia illusione. Il problema oggi è che “il cavallo non beve”. Fuor di metafora, la drammatica carenza di investimenti (assieme alla critica questione della produttività) spiega in maniera cruciale l’attuale difficoltà italiana. Questo vuol dire che ogni risparmio o profitto tende primariamente a tradursi in rendita, soprattutto finanziaria, piuttosto che indirizzarsi a creare investimenti produttivi. I motivi possono essere molteplici: sfiducia, mancanza di condizioni di contesto, dimensioni modeste delle imprese, asfitticità e problemi del sistema bancario, forse altro ancora. In sintesi, però, questo significa che la decontribuzione e la defiscalizzazione sembrano strategie inefficaci, soprattutto se accompagnate a un crollo verticale degli investimenti pubblici, come quello avvenuto negli ultimi cinque/dieci anni. Favorirebbero i profitti e i ceti elevati, senza grandi ritorni sociali. Il loro esito reale sarebbe creare ulteriore diseguaglianza senza migliorare la situazione occupazionale.

In termini politici, questo significa che una strategia di questo tipo rischia di non intercettare l’ansia diffusa nel paese, la percezione di impoverimento di un ceto medio in crisi, il dramma del mondo giovanile condannato al precariato, il senso diffuso di inutilità della politica rispetto alle sfide in campo nella globalizzazione. E quindi di non saper riconquistare i consensi che il centro-sinistra ha perso verso l’astensione o verso i movimenti di protesta populista, proprio nei suoi classici ambienti sociali di riferimento. Mentre è molto dubbio che riesca a conquistare voti in un presunto mitico elettorato di “centro” che è in Italia tradizionalmente conservatore e piuttosto difficilmente disposto a cambiare scelta.

C’è un’alternativa? Io penso di sì. Un centro-sinistra di governo all’altezza dei problemi attuali dovrebbe invece utilizzare tutti i margini e le flessibilità possibili per lanciare un grande piano di investimenti pubblici selettivi, ad alta intensità di lavoro e capaci di stimolare innovazione sociale e sostenibilità dello sviluppo. Un piano mirato ad ampliare il capitale sociale e quindi anche l’attrattività e la competitività del paese (istruzione e ricerca, reti comunicative, infrastrutture di base e tutela del territorio, giustizia, servizi alla persona). Un piano capace di aiutare le energie positive e le risorse imprenditoriali e conoscitive presenti a crescere e consolidarsi. A questo rilancio forte della capacità di indirizzo e sostegno dello Stato andrebbe collegata ogni risorsa disponibile (e sopra abbiamo già fatto un elenco di risorse cospicue già utilizzate, o presuntivamente da utilizzare, in altro modo). Naturalmente a questa linea nazionale andrebbe accostata una forte iniziativa per sollecitare l’Europa nella stessa direzione, molto al di là dei timidissimi cenni di risposta alla crisi, come il piano Juncker.

Se questo divenisse l’asse di una proposta di sinistra moderna capace di competere nel dibattito pubblico con quella sopra abbozzata, si riequilibrerebbe l’orizzonte di un’offerta politica che tende invece pericolosamente a restringersi, provando così ad allargare il consenso e ad articolare il quadro di un possibile orizzonte di governo dei problemi del paese. Poi, chi avrà più filo tesserà.

 

Guido Formigoni

 

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